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Samba e martello: Brasile subito forte. Ma che tristezza la protesta raccontata dai giornali

La prima partita dei mondiali ha confermato tutti i sospetti: il Brasile parte favoritissimo per la vittoria finale. Una squadra non troppo spettacolare ma abbastanza solida, e dove non arrivano Neymar e Oscar ci arriva l’arbitro, che sul punteggio di uno a uno contro una Croazia particolarmente coriacea, concede un rigore dubbio (per usare un eufemismo) che spiana la strada ai carioca, che nel finale dilagano e chiudono i conti sul 3-1.

Boskov, dall’alto della sua incommensurabile saggezza, diceva che «rigore è quando arbitro dà», ma a volte si tende a esagerare. Riguardando le immagini, si può soltanto ammirare il tuffo plastico di Fred, che appena sfiorato da un difensore croato, si lascia cadere giù come se fosse stato trafitto da una scarica di mitra. D’altra parte, mentre fuori dallo stadio andava in scena l’inferno, il Brasile aveva l’obbligo di vincere, almeno per tentare di sbollentare un po’ gli animi, o meglio, di scaldarli per questioni pallonare e non sociali. Non è complottismo da strapazzo: le squadre di casa, ai mondiali, ricevono sempre un trattamento di favore. Ricordate quando nel 2002 la Corea del Sud arrivò in semifinale? Ricordate l’arbitro Moreno e la scandalosa partita con la Spagna?

Intanto, televisioni e giornali danno il peggio di sé. Ieri, a fare un po’ di zapping, la scelta era limitata a: 1)Matteo Salvini (sì, lui) che sentenzia: «meglio l’uovo oggi che la gallina domani» per dire che la nazionale italiana deve cominciare a giocare bene da subito. A supporto di questa tesi, due elementi: «la palla è rotonda» e «la partita dura 90 minuti». Un genio. 2) La milanese inconsapevole – e chissà perché intervistata – che: «Mio marito dice che vince il Brasile». Signora, ma lei ha sposato un genio!

Ma il peggio del peggio è, senza dubbio, l’indignazione a comando che accompagna ogni manifestazione sportiva internazionale, soprattutto se di stampo calcistico. Due anni fa, ai tempi degli europei in Ucraina, si parlava dell’olocausto di cani randagi segretamente organizzato da Kiev per ‘ripulire le strade’ prima dell’arrivo degli ospiti europei.  Adesso va di moda parlare degli ‘squadroni della morte’ che girano per le favelas e rapiscono – o peggio maciullano – i bambini. Notizie verosimili ma parecchio ingigantite, e soprattutto lanciate come bombe a orologeria sugli schermi degli occidentali annoiati tra una partita e l’altra. Il punto non è il problema in sé, ma la bolla mediatica che vi si costruisce intorno. Problematizzare per tenere alta l’attenzione: sembra quasi che tutti i problemi del Brasile siano nati con il mondiale e che, spente le cineprese e tornati a casa i corrispondenti esteri, con questo moriranno. È un modo per banalizzare le proteste sociali che da un paio d’anni ormai attraversano il più grande paese sudamericano. E fa onestamente sorridere che tutti gli esegeti della protesta, autori di servizi strappalacrime, ultraretorici e ultranoiosi (vero, Concita De Gregorio?) siano poi gli stessi che invocano la mano dura e la galera per i No Tav.

La verità è che i brasiliani stanno affrontando con qualche difficoltà il noto tema «come si fa una protesta». È un principio sacrosanto utilizzare un palcoscenico internazionale come il mondiale per far sentire la propria voce. Anzi, è una strategia assai intelligente. L’unico problema è che a raccontare questo momento di agitazione, almeno in Italia, sono per lo più giornalisti che definire reazionari è far loro un complimento. È un po’ come quando, sempre per parlar di casa nostra, dopo ogni manifestazione non si parla mica delle ragioni (o dei torti, per carità) della protesta, ma degli scontri in piazza. Che quando non ci sono si possono all’occasione anche inventare.

Tutto questo per dire che «la questione brasiliana» esiste a prescindere dai mondiali e questo giornale, ad esempio, lo sa bene. Vedremo se i media mainstream manterranno alta l’attenzione anche quando il circo della Fifa farà armi e bagagli e se ne andrà via.

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