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Afghanistan, le scomuniche di Abdullah

Sentendosi già investito dell’incarico presidenziale a lungo occupato da Hamid Karzai, Abdullah Abdullah assume i toni del padrone di casa. Sa che a Washington l’accetteranno, come in realtà farebbero per il suo rivale Ghani perché chi fra loro prevarrà si porrà comunque al servizio dei voleri statunitensi. Abdullah si fa forte della marcia in più fornita dagli accordi con la maggioranza dei signori della guerra e degli affari, che con lui hanno stretto un patto d’interessi e sono pronti a sostenerlo a ogni costo, anche perché sanno che mai si rimangerà la parola data su scambi di favori per il business di ciascuno. Pena la correzione di quel tiro al piccione che, come monito pre-elettorale, una settimana fa aveva steso tre sue guardie del corpo e una manciata di passanti. Perfette esplosioni meditative. Appena concluse le operazioni di voto cosa estrae dal cappello il furbo Abdullah? La richiesta di bocciatura del capo della Commissione Elettorale Indipendente Zia-ul-Haq Amarkhail. Figura finora operativa, ma che all’avvio dello spoglio del voto presidenziale una sua personalissima sfiducia pubblica bolla come inaffidabile. 

Cosa ha fatto Armarkhail per beccarsi l’ostracismo del favorito? Secondo le accuse lanciate in conferenza stampa dal “presidente in pectore” sarebbe uscito dal quartier generale della Commissione sul voto con un certo quantitativo di urne piene di schede che fanno sospettare una copiosa  frode. Questa non sarebbe la prima né l’ultima, ma come tutte le passate e presenti non è facile dimostrare poiché in quei luoghi ogni trasporto del materiale elettorale è tutt’altro che trasparente. Abdullah ha lanciato un monito preventivo: “Non accetteremo i dati di province in cui l’affluenza alle urne risulta più alta del numero degli elettori”. Logica lapalissiana che però in quel Paese va ribadita. Così il presidente della Commissione elettorale Nuristani ha garantito una profonda indagine sull’operato di Amarkhail su cui nella prima tornata di voto Abdullah non avanzava nessuna perplessità. Anzi, quando Ghani aveva paventato sospetti di brogli, l’avversario forte d’uno spoglio a lui favorevole lodava l’operato della Commissione. Come sempre gli opportunismi di fase non mancano. 

Nell’attesa dei risultati finali le cui verifiche si dilatano sino ad agosto, e che le diatribe fra i contendenti potrebbero protrarre ulteriormente, cronici e inquietanti aspetti permangono nella vita d’ogni giorno. Quella che da decenni fa i conti con l’economia di guerra che distrugge e poi reintroduce risorse (la linea politica degli aiuti internazionali) e genera un’attività autoreferenziale. Legata, ad esempio, al piano di sicurezza in base al quale si gonfiano i numeri di esercito e polizia locali con reclutamenti di giovani che grazie alla divisa ricevono un salario, oppure si prestano all’ancora più rischiosa funzione di body-gard e contractor. Quindi la schiera d’interpreti e mediatori, procacciatori di contatti pubblici e privati, figure legate alla presenza stabile di occupanti e cooperanti che offrono “opportunità di lavoro” agli afghani. Un lavoro passivo e malato, dipendente dal latente stato di guerra. Su cui si gettano speculatori come gli affittuari di locali per il commercio che sperano nella presenza ad libitum di tutto il “carrozzone di guerra e pace” che fa guadagnare prevalentemente loro e il ceto burocratico, non incentivando attività primarie o rilanciando quelle realmente produttive. E’ la miserabile condizione di Stato assistito, garanzia assoluta per il potere e il vantaggio di pochi e l’oppressione sociale ed esistenziale della popolazione.  

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