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Iraq: Al Qaeda dilaga, Obama nicchia

Prosegue da ieri la furiosa battaglia di Baiji, sede della principale raffineria di petrolio dell’Iraq, presa d’assalto all’alba di ieri dai miliziani islamisti dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante (Isil), che secondo varie fonti avrebbero issato la propria bandiera nera sullo strategico impianto. La raffineria, a 200 km a nord di Baghdad, con una produzione quotidiana di 600.000 barili, è stata evacuata dai lavoratori stranieri ma sul posto sarebbero rimasti alcuni operai iracheni. All’emergenza militare si somma ora quella economica, visto che il crollo delle operazioni di estrazione e di vendita del petrolio hanno ridotto al lumicino le entrate per il governo centrale che potrebbe non essere in grado di sostenere economicamente uno sforzo bellico sempre più costoso. 

Nonostante l’inarrestabile avanzata dei combattenti sunniti – moltissimi dei quali stranieri– forti di nuove conquiste nella provincia di Salaheddin (nord) – il primo ministro Nouri Al Maliki ha assicurato che “l’esercito ha cominciato la controffensiva, riprendendo l’iniziativa e respingendo l’avversario”, in particolare nella città strategica di Tal Afar, nella provincia di Ninive, lungo il confine siriano, che sarebbe in parte tornato sotto controllo governativo. Inoltre Maliki ha annunciato la destituzione di alcuni alti comandanti dell’esercito e della polizia per aver abbandonato le loro posizioni davanti al nemico senza combattere.

Ma la dichiarazione ottimistica sul successo della controffensiva delle forze regolari contrasta nettamente col nuovo pressante invito rivolto dall’esecutivo di Baghdad a Washington affinché intervenga e rapidamente per frenare l’avanzata dei jihadisti sunniti. Il ministro degli Esteri iracheno Hoshyar Zebari ha di nuovo chiesto ufficialmente agli Stati Uniti di attuare alcuni bombardamenti aerei per bloccare la marcia dell’Isil verso la capitale. Ma l’amministrazione Obama continua a nicchiare su un intervento militare nel paese che continua ad essere descritto come ‘possibile’ ma che finora non ha avuto nessun riscontro pratico. Evidentemente Washington mira a sfruttare l’avanzata dei jihadisti per rafforzare l’Isil anche in territorio siriano contro le forze fedeli al governo, e ad indebolire ulteriormente gli sciiti che controllano l’esecutivo di Baghdad. Un gioco che però potrebbe rivelarsi assai pericoloso.
Addirittura, secondo alcune indiscrezioni, la Casa Bianca vorrebbe imporre le dimissioni al premier Al Maliki da sostituire con un esponente più incline agli interessi statunitensi e a capo di un esecutivo che comprenda anche curdi e sunniti. 

Il nuovo scenario iracheno sta coinvolgendo anche i paesi della regione, con prese di posizione sempre più nette. La monarchia sunnita dell’Arabia Saudita e il Qatar – accusate apertamente da Al Maliki di finanziare i qaedisti – hanno strumentalmente avvertito del rischio di una “guerra civile” in Iraq con “ripercussioni” sull’intera regione. Gli Emirati Arabi, di cui sono evidenti i legami con i jihadisti, hanno ritirato il proprio ambasciatore da Baghdad protestando contro ‘il settarismo’ del governo Al Maliki accusato di penalizzare i sunniti.

L’Iran da parte sua è già impegnato anche militarmente nella difesa di alcune città irachene dall’assalto jihadista e 5000 volontari sciiti sono pronti a intervenire. Ma ieri Teheran ha fatto sapere che una eventuale cooperazione tra Stati Uniti e Iran sarà possibile in Iraq solo se i colloqui sul programma nucleare iraniano andranno a buon fine. I negoziati tra la delegazione iraniana e quelle del Gruppo 5+1, in corso a Vienna, “sono un test di fiducia”, ha dichiarato a Oslo Mohammad Nahavandian, il capo di gabinetto del presidente Hassan Rohani. 

Intanto gli intensi scontri ai quattro angoli del territorio stanno facendo sprofondare il paese in una crisi umanitaria che colpisce decine di migliaia di sfollati. In seguito ai gravi danni subiti dall’ospedale di Medici senza frontiere (Msf) a Tikrit durante il bombardamento della città il 13 giugno scorso l’Ong ha lanciato un appello a tutte le parti in conflitto perché rispettino immediatamente lo staff e le strutture sanitarie e risparmino le vite dei civili. I danni inferti alla struttura impediranno comunque di fornire cure mediche fondamentali a circa 40.000 persone sfollate a causa di combattimenti e bombardamenti. La situazione umanitaria in Iraq è estremamente preoccupante, soprattutto a Mosul, nel nord-est del paese, e nel governatorato di al-Anbar, nell’area occidentale.

Sul fronte umanitario la Turchia ha informato del rapimento di 15 operai turchi, a cui si aggiungono altri 45 lavoratori stranieri (pakistani, bengalesi, turkmeni e nepalesi) scomparsi nell’area di Kirkuk. Da Mosul sarebbero invece scomparsi 40 operai indiani, 46 le infermiere scomparse dall’ospedale di Tikrit.

 

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