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Israele, rivolta tra i riservisti dell’intelligence: “basta perseguitare i palestinesi”

“Eppur (qualcosa) si muove”, potremmo dire. Sarà il risultato della crescente campagna di boicottaggio che prende di mira i vari gangli di una delle società più militarizzate e blindate del pianeta. Sarà l’effetto delle continue stragi di donne, anziani e bambini compiute da Tsahal nella Striscia di Gaza. Sarà stanchezza, disillusione, un rigurgito di coscienza…

Fatto sta che, improvvisamente, nella tradizionalmente granitica corazza delle forze armate israeliane sembra aprirsi una breccia. Piccola ma significativa. Perché questa volta a smarcarsi dall’ideologia ufficiale e a contestare una politica bellicista, aggressiva e razzista nei confronti della popolazione palestinese non sono i giovanissimi refusenik che finiscono in galera perché non vogliono servire nell’esercito israeliano durante il periodo di leva.
Questa volta a scioccare una società conformista o colpevolmente distratta ci hanno pensato 43 riservisti di una delle unità più prestigiose dell’intelligence militare, la Yehida Shmoneh-Matayim, spesso paragonata alla National Security Agency statunitense.
Che hanno inviato una lettera più che esplicita al premier Benjamin Netanyahu, al capo di stato maggiore e al capo dei servizi segreti, scritta tra l’altro prima che i bombardieri israeliani uccidessero migliaia di abitanti della Striscia di Gaza nel corso della cosiddetta operazione ‘Margine Protettivo’.
La lettera è stata pubblicata dal quotidiana israeliano Yedioth Aharonot e da quello britannico Guardian, scatenando naturalmente un vero e proprio terremoto.

“Noi, veterani dell’unità 8200, riservisti nel passato e nel presente, dichiariamo che rifiutiamo di prendere parte ad azioni contro i palestinesi e rifiutiamo di continuare a servire come strumenti per approfondire il controllo militare sui territori occupati” affermano i 43 firmatari della missiva, ufficiali compresi, che contestano il fatto che i dati di intelligence che l’unità raccoglie spiando i palestinesi – “molti dei quali sono innocenti” – vengono utilizzati poi per la “persecuzione politica e per creare divisioni all’interno della società palestinese”.
I riservisti contestano il fatto che la loro attività – che è principalmente quella di intercettare le comunicazioni elettroniche tra palestinesi – abbia ben poco a che fare con la difesa e la sicurezza di Israele. “La popolazione palestinese – si legge nella lettera – sotto il governo militare è completamente esposta allo spionaggio e alla sorveglianza dei servizi segreti israeliani. Essi creano divisioni all’interno della società palestinese attraverso l’assunzione di collaboratori. In molti casi, l’intelligence impedisce agli imputati di ricevere un processo equo nei tribunali militari, con le prove contro di loro che non vengono rivelate”. Lo spionaggio mira a individuare qualsiasi dettaglio utile nelle vite dei palestinesi monitorati – preferenze sessuali, problemi finanziari, malattie, tradimenti – per poi utilizzarli allo scopo di “estorcere o ricattare le persone, costringendole a diventare dei collaborazionisti”.
Una donna soldato racconta di un errore di identificazione da lei commesso che portò alla morte di un bambino nel corso di un cosiddetto ‘bombardamento mirato’. Inoltre i 43 denunciano che “mentre la sorveglianza dei cittadini israeliani è sottoposta a limiti assai ristretti, i palestinesi non godono di simili protezioni legali”.
Ma la denuncia va al di là delle competenze specifiche dell’unità di cui fanno parte i riservisti autori del documento, che prendono apertamente di petto la politica coloniale e l’occupazione israeliana dei territori palestinesi, a partire dalle continue espropriazioni di terre poi utilizzate per realizzare gli insediamenti ebraici.
Prima che la ‘pesante’ lettera facesse in giro del mondo, tre dei firmatari hanno anche concesso delle interviste al quotidiano britannico Guardian, rivolgendo accuse durissime nei confronti di Israele, e in particolare ai servizi di sicurezza che somigliano “più a quelli di un regime che di una democrazia”. 

Il governo di Tel Aviv è stato fortemente spiazzato dalla lettera e dalla eco che la denuncia dei riservisti ha avuto all’interno di alcuni settori della popolazione israeliana. Da una parte i comandi militari cercano di smentire e sminuire le accuse, dall’altra minacciano una dura repressione contro i militari ‘traditori’.

I dirigenti delle forze armate hanno affermato che l’unità 8200, come tutte le altre all’interno dell’esercito israeliano, opera secondo standard di addestramento meticolosi e “incentrati sugli aspetti etici, morali e sulle corrette procedure di lavoro”.
Ma contemporaneamente il portavoce dell’esercito e generale di brigata Moti Amoz ha minacciato tremende ritorsioni nei confronti degli ‘spioni’ descrivendo come inaccettabile la loro pretesa di esprimere le proprie opinioni politiche in pubblico. “Nell’esercito israeliano non c’è posto per l’insubordinazione. Esistono disaccordi e ci sono opinioni politiche diverse. Si celebra la democrazia. L’esercito costituisce un contesto comune, forse il più ampio di tutta la società israeliana, e noi ci pensiamo sette volte prima di esprimere le nostre opinioni politiche in contesti non destinati a ciò” ha affermato Amoz che ha annunciato per i riservisti firmatari dell’appello “misure disciplinari nitide e contundenti”.

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