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Messico, dimostranti assaltano il Palazzo Presidenziale. Un intero sistema sotto accusa

Città del Messico – Il tentativo della Procura della Repubblica di mettere la parola fine sul massacro di Iguala e la sparizione forzata dei 43 normalisti di Ayotzinapa a colpi di conferenze stampa e arresti spettacolari non è servita a tranquillizzare l’opinione pubblica e a fermare le mobilitazioni. Al contrario, la ricostruzione degli inquirenti che dà per morti i ragazzi, ha rappresentato un vero e proprio boomerang per le autorità. Con ancor più rabbia e indignazione, infatti, il paese ha risposto mobilitandosi quasi immediatamente dopo le rivelazioni dei killer con cortei, presidi, flash mob e blocchi stradali spontanei.

La prima forte reazione alla conferenza del procuratore Murillo è venuta dai familiari delle vittime che hanno ribadito la loro totale sfiducia negli organi inquirenti, i quali fondano la loro ricostruzione dei fatti esclusivamente sulle dichiarazioni dei detenuti senza fare riferimento a nessuna prova scientifica e dimostrando una fretta assai sospetta di chiudere il caso. In una conferenza stampa svoltasi nella scuola normale rurale Isidro Burgos pochi minuti dopo quella della procura, i portavoce del Comitato hanno sottolineato che accetteranno solamente i risultati prodotti dalle analisi dell’equipe argentino di antropologi forensi, e che, finché non saranno prove tangibili e concrete a confermarne il ritrovamento, considereranno vivi i 43 desaparecidos e continueranno le ricerche e la lotta.

A far arrabbiare non solo i genitori ed i compagni delle vittime ma anche l’importante e variegato movimento che riempe da oltre un mese le piazze messicane è stato il tempismo della conferenza. Se in altre occasioni gli incontri con la stampa di Murillo – seguiti dai messaggi alla nazione del presidente Peña Nieto ripetuti all’infinito dai mass media –sono arrivati alla vigilia delle giornate globali di mobilitazione per tentare di sottrargli riflettori e partecipazione, stavolta giungono giusto due giorni prima dell’inizio del viaggio presidenziale in Cina e Australia, da molti giudicato inopportuno data la mancanza di informazioni sui giovani e lo stato di ebollizione in cui si trova il paese.

Inoltre, sul finire della conferenza stampa, durata poco più di un’ora e durante la quale si è glissato sui molti punti oscuri della faccenda eludendo domande cruciali poste dai giornalisti presenti, Murillo ha detto di essere stanco della pressione e del tanto lavoro di questi giorni, chiudendo così l’incontro. La frase pronunciata, “ya me cansé”, che potremmo tradurre con “ormai sono stanco”, ha definitivamente frustrato l’obiettivo di tranquillizzare il pueblo, moltiplicando invece l’indignazione. Questa, infatti, si è dimostrata innanzitutto sui social network dove l’hashtag #YoMeCansé (insieme a #AccionGlobalAyotzinapa e #A39RenunciaEPN) è tuttora trandingtopic a livello nazionale e lo è stato per un bel pezzo sul piano globale.

Sotto questo titolo, manifestanti virtuali e reali hanno sottolineato che ad essere stanca di terrore e impunità è la società intera, vittima da otto anni a questa parte delle scelte di una classe politica che ha lavorato in funzione degli interessi del grande capitale, e di una scellerata guerra che ha già prodotto migliaia di morti e desaparecidos riducendo nei fatti l’agibilità democratica in tutto il territorio nazionale. In questo senso, la lotta per chiedere verità e giustizia per la strage e la restituzione in vita dei normalisti è diventata un catalizzatore dello scontento già da tempo presente all’interno della società messicana.

Le iniziative, infatti, sono andate ben al di là delle tastiere dei computer ed hanno invaso le strade immediatamente dopo la fine della conferenza. A Città del Messico, inondata di manifestanti e di eventi solo due giorni prima durante la terza giornata globale di lotta per Ayotzinapa, è stato indetto un presidio al Ángel de la Independencia alle 20, cioè una quarantina di minuti dopo lo “ya me cansé” incriminato e presente, in seguito, in decine di cartelli portati dai manifestanti. Dopo essere aumentato nei numeri il presidio si è trasformato in un corteo conclusosi con diversi interventi di fronte alla PGR (Procuraduría General de la República). Nello stesso tempo si sono verificati alcuni blocchi stradali in diversi punti della capitale federale.

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Il sabato, nonostante il battage mediatico desse per risolta la questione Ayotzinapa invitando al ritorno alla normalità (come richiesto anche dalla principale organizzazione impresariale dello stato del Guerrero che si è detta stanca delle mobilitazioni nell’entità), le mobilitazioni sono continuate con una grande partecipazione al corteo di Città del Messico, lanciato la sera prima e preceduto da un flash mob nella piazza centrale della capitale e da altre iniziative. Composta soprattutto da uomini e donne non organizzati, con grande presenza anche di famiglie, la manifestazione si è conclusa nello Zocalo.

A questo punto un gruppo di manifestanti si è recato davanti a Palacio Nacional, sede del potere esecutivo, dove ha iniziato un lungo tentativo di buttare giù il portone riuscendo a bruciacchiarlo, non senza produrre alcune spettacolari fiammate, ed a danneggiarlo in parte. Dopo più di un’ora di assedio al portone, normalmente superprotetto dalle forze dell’ordine e stranamente lasciato indifeso in quest’occasione, sono intervenuti i celerini dell’Estado Mayor Presidencial ed hanno allontanato la folla a colpi di manganello, proiettili di gomma e lacrimogeni. In seguito, la polizia ha iniziato quella che è stata denunciata come una caccia al manifestante e sono state registrate diverse detenzioni arbitrarie. Il bilancio finale, secondo Il Comité Cereso, è di 23 detenuti, la maggioranza dei quali è stata trasportata alla sede della SEIDO (Subprocuradoría Especializada en Investigación de Delincuencia Organizada).

Iniziative si sono tenute anche nello stato del Guerrero dove gli studenti della FECSM (Federación de estudiantes Campesinos Socialistas de México) hanno preso di mira il palazzo di governo ed altri sei edifici istituzionali a Chilpancingo, la capitale dello stato. In precedenza, il Movimiento Popular Guerrerense (MPG) si era manifestato con dei blocchi stradali e la richiesta di dimissioni dei tre livelli di governo. Altre mobilitazioni sono state segnalate in diverse zone del paese, tra le quali spiccano quelle di Veracruz, Chiapas, Morelos e Jalisco. Insomma, pare proprio che la versione ufficiale abbia convinto solo i media mainstream e gli osservatori vicini all’establishment e che per il momento una parte significativa della popolazione non abbia molta voglia di tornare alla “normalità”. Tanto è vero che anche per oggi sono state indette svariate iniziative in diverse regioni del Messico. Nella capitale, per esempio, è previsto un presidio di massa a Plaza de la Constitución per accogliere l’arrivo della Carovana 43×43, partita qualche giorno fa dalla normale rurale di Ayotzinapa e composta da 43 organizzazioni che chiedono la “presentación con vida” dei normalisti.

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Tornando alla conferenza stampa di Murillo, sono molte le cose che non convincono i familiari della vittime e non solo. Queste hanno a che fare con la scarsa completezza delle indagini e, per certi versi coincidono con la prima relazione della Commissione parlamentare che sta indagando sui fatti e che ha avuto molto meno rilievo mediatico delle parole dei sicari dei Guerreros Unidos e del procuratore. Nella relazione, presentata alla camera martedì scorso si conferma che i giovani sono stati vittime di sparizione forzata e si indica chiaramente che le responsabilità vanno al di là dell’ambito municipale e che esistono prove di irregolarità nelle indagini.

Nel documento, inoltre, la commissione si dice preoccupata per il tentativo di “criminalizzare le vittime” e riferisce come durante il colloquio con i deputati l’ex governatore Aguirre abbia sostenuto che le normali sono “infiltrate da gruppi criminali”. Insomma, il testo smentisce la linea investigativa presentata dagli inquirenti secondo la quale i responsabili della strage e della sparizione forzata sono esclusivamente l’ex sindaco Abarca e consorte, insieme ai poliziotti municipali di Iguala e Cocula, al soldo dei narcos dei Guerreros Unidos. Insomma, un caso isolato di narco-amministrazione locale e non un crimine di stato con responsabilità per azione od omissione delle forze di sicurezza e dei governi nazionale e statale.

Confermando le dichiarazioni di alcuni normalisti sopravvissuti e i sospetti di molti, la relazione della Commissione dimostra che i responsabili non vanno circoscritti solo nell’ambito locale. Il 26 settembre, infatti, sia la polizia federale sia quella statale hanno vigilato per ore i movimenti dei normalisti ad Iguala, seguendoli e pedinonandoli a lungo. Le prime chiamate ai numeri di emergenza sono arrivate poco dopo le 21.30. Diverse forze di sicurezza dello stato sono state avvisate della sparatoria ma hanno preferito non intervenire. Tra queste va segnalato il XXVII Battaglione Infanteria che si trova a pochi km dalla statale Iguala-Chilpancingo in cui si è svolta la sparatoria.

Polizia statale e federale ed esercito, dunque, erano al corrente di quanto stava succedendo e hanno perfino seguito le attività dei normalisti senza intervenire di fronte agli abusi portati avanti dalla polizia locale e dai pistoleros, il che costituisce una “grave omissione della protezione agli studenti e alla popolazione civile”. Infine, il presidente della Commissione Guillermo Anaya, ha dichiarato che ci sono stati “errori madornali” da parte del governo federale “che hanno chiuso la possibilità di poter trovare i giovani  immediatamente”, due esempi in questo senso sono il non essere intervenuti nelle prime 72 ore e aver trattato la strage come una questione locale.

Insomma il quadro descritto è molto più ampio di quello presentato dalla versione di media e autorità, la quale, lungi dal fare chiarezza sui fatti, pare più mirata a dare risposte mediatiche finalizzate a sgonfiare la protesta e a ripulire l’immagine del paese e del presidente, fino a qualche mese fa considerato un grande riformatore dalla cosidetta comunità internazionale (quella delle guerre per portare pace e democrazia, per capirci), cieca di fronte ai massacri già  in atto e attenta solo ai futuri profitti resi possibili grazie alle cosiddette riforme strutturali. Che poi è la stessa oggi – media mainstream globali in testa – si accontenta della ricostruzione degli inquirenti, gli stessi che hanno rifiutato l’assistenza tecnica offerta dalla CIDH (Corte Interamericana dei Diritti Umani) e che per anni hanno garantito l’impunità a criminali e corrotti.  

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