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Turchia, la domenica delle manette

La domenica delle manette cala sul sultanato erdoğaniano portando in galera 31 giornalisti che come altre figure (studenti, minatori, kurdi,  oppositori d’ogni genere e anche poliziotti e magistrati sgraditi) infastidiscono il sentimento d’onnipotenza del presidente-padrone. L’ennesima ondata repressiva attuata giunge alla vigilia di quei processi di corruzione e malaffare che un anno fa misero in crisi il governo dell’allora premier Erdoğan con l’implicazione di tre importanti ministri e coinvolgendo lo stesso premier tramite l’Ong vicina a suo figlio Bilal. Eppure scandali, contestazione del Gezi Park, stragi di lavoratori ipersfruttati da imprese gaglioffe per nulla rispettose delle non diffuse norme di sicurezza, non hanno incrinato popolarità e seguito dell’ex sindaco di Istanbul che, giunto alla presidenza d’una Repubblica vuole orientarla in senso presidenzialista ben oltre la tradizione kemalista. La retata di ieri ha la doppia funzione di togliere di scena cronisti e commentatori sgraditi e sceglierli sul fronte di colui ch’è diventato un avversario ideologico: Fetullah Gülen. Buona parte dei cronisti arrestati appartengono infatti alla testata Zaman di proprietà del miliardario islamico, riparato da anni in Pennsylvania.

L’allontanamento fra i due è ormai datato di qualche anno, ma l’ultimo biennio ha evidenziato uno scontro aperto con bordate reciproche e ricadute economiche sulle scuole private del gruppo Hizmet, cui Erdoğan ancora premier ha tagliato cospicui fondi statali di finanziamento. Le testate afferenti all’ambiente gülenista, tutt’altro che minoritario nella società islamica e con ramificazioni anche in strutture della sicurezza e della giustizia, hanno rappresentato una coscienza sempre più critica verso il gruppo di potere dell’Akp con contestazioni sulla politica interna, sia istituzionale sia finanziaria. Meno, in verità, su una politica estera caratterizzata da ambigui opportunismi nella rinfocolata area mediorientale,   non solo rispetto alla guerra civile siriana, ma alla nascita dello Stato Islamico. Eppure lo stesso imam Gülen si fa portavoce d’un islamismo moderato che nulla dovrebbe concedere a qualsivoglia fondamentalismo. Certo il capitalista turco-americano non mostra la spudorata doppiezza del suo rivale, ufficialmente non s’occupa di politica ma di business, però affari e scenario politico restano inscindibili in Turchia come altrove. E quando l’occupazione del potere diventa un fatto di clan più che di partito o tendenza ideologica, ecco sfociare le conseguenze di conflitto senza esclusione di colpi.

La retata in questione è, dunque, dettata dalla volontà di controllo di alcuni terreni. Quello comunicativo è indubbiamente centrale. Avere la spina nel fianco di taluni media che quotidianamente rivelano, commentano, criticano non piace a nessun uomo di potere, figurarsi a chi non ama il contraddittorio e mira a incarnare l’assolutezza istituzionale. I giornalisti vanno fermati con ogni mezzo. Un autocrate come Putin ne decretava la cessazione di servizio per avvenuto decesso; Erdoğan per ora li sta incarcerando, la via del fuoco l’applica coi blindati nelle piazze. Paradossalmente si può affermare che a Ekrem Dumanlı, direttore di Zaman e Hidayet Karaca, general manager di Samanyolu Tv, due fra gli arrestati più noti, sia andata ancora bene. Ovviamente dovranno dimostrare d’essere estranei alla pianificazione d’un “disegno terrorista” che attacca la sicurezza nazionale. Finché sono in vita potranno tentarlo di fare. E visto il delirio con cui l’establishment turco punta a delegittimare qualsiasi diversità d’opinione, lanciando attacchi anche a icone della sua intellighenzia come Pamuk (additato dal quotidiano filogovernativo Akit come aderente a una presunta lobby internazionale) la partita può considerarsi aperta. Non fosse altro perché il mondo osserva. 

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