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Contrordine saudita: il petrolio sarà più caro

E adesso, che fine farà la crescita? La notizia è secca: l’Arabia Saudita, o meglio la sua compagnia petrolifera Saudi Aramco, ha comunicato ieri ai propri clienti che il listino dei prezzi aumenterà da aprile di un dollaro e spiccioli al barile. Per le abitudini del mercato l’aumento, che potrebbe sembrare poca cosa (il Brent in questi giorni è quotato poco sopra i 60 dollari), si tratta di una sferzata netta: qui, infatti, gli aumenti o i ribassi si calcolano in genere con i centesimi.

Insomma: i sauditi hanno deciso che è ora che il prezzo risalga. E anche abbastanza in fretta. Un’inversione di tendenza brusca, anche se in qualche modo annunciata dal costante rialzo dei prezzi internazionali nell’ultimo mese.

Non è una notizia da poco. Il basso prezzo dell’energia era infatti tra gli argomenti principali, insieme alla relativa svalutazione dell’euro nei confronti del dollaro, a favore di una possibilità di “ripresa” alle porte. Soprattutto per i paesi europei, grandi consumatori di energia importata. E soprattutto per l’Italia, che sta svendendo a passo di carica le proprie industrie più grandi e tecnologicamente all’altezza. Quel tanto di ottimismo che si era imposto in alcuni governi, e in molte redazioni, andrà ora decisamente ricalibrato. Anche perché il dollaro ha smesso di risalire, visto che la Federal Reserve appare molto indecisa sull’opportunità di far risalire i tassi di interesse (e quindi far apprezzare la moneta statunitense). A migliorare la “competitività” italiana resta dunque soltanto lo smantellamento delle tutele del lavoro, ossia un aumento dei ritmi e un calo dei salari. Ben poca cosa a confronto con le dinamiche dei prezzi petroliferi o le ragioni di cambio; o addirittura un dramma per quelle imprese, in genere medio-piccole, che lavorano quasi esclusivamente per il mercato interno.

Ma le conseguenze più importanti della decisione saudita sono decisamente geopolitiche. L’aumento del prezzo è ossigeno per molti paesi nella lista nera degli Stati Uniti (Russia, Venezuela, Iran), nonché per il settore dello shale oil, fin qui quasi esclusivamente yankee o canadese. Per recuperare il terrreno perduto, in entrambi i casi, servirà molto più di un dollaro al barile, ma l’inversione di tendenza consente di cambiare le previsioni a medio termine. E sui mercati finanziari non è cosa da sottovalutare.

In generale, insomma, è un’ottima notizia per i paesi produttori e negativa per quelli importatori. Stimola infatti “la crescita” dei primi e un rallentamento dei secondi. Tra cui noi.

A palazzo Chigi dovranno inventarsi dei nuovi tweet ottimisti. Ma lo scarto verso la realtà va aumentando. Alla fine anche i più fessi e disinformati potrebbero accorgersene…

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