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Turchia: è iniziato il crepuscolo dell’impero di Erdogan?

Fino a pochi mesi fa sembrava che la stella di Erdogan – quello che definì il quattordicenne Berkin Elvan, ucciso da un lacrimogeno sparato dalla polizia, ‘un terrorista’ – fosse al massimo del suo fulgore e dovesse brillare per sempre. Ma gli eventi di questi giorni in Turchia dimostrano che non è così, e che il lungo e incontrastato regno del ‘sultano’ potrebbe finire prima del previsto e sull’onda di un vero e proprio sgretolamento del suo impero.
La Turchia non è il paese florido, potente e riverito che la propaganda del regime dell’Akp continua a descrivere. Per diversi motivi. L’economia che negli anni scorsi ha marciato a ritmi cinesi ormai risente del peso di un sistema basato sulla speculazione edilizia e finanziaria che poco ha ridistribuito ai settori meno ricchi di una società turca che vede allontanarsi il benessere più volte promesso e che sembrava a portata di mano dopo interminabili sacrifici. Le ingiustizie e le ineguaglianze nel paese crescono di pari passo con una stretta islamista e repressiva che ha trasformato la Turchia in uno “stato di polizia” assai più di quanto non fosse già. Dopo una prima fase di liberalizzazione e di relativa apertura seguita all’arrivo al potere dei liberal-islamisti dell’Akp che hanno ridimensionato il potere dei militari e degli apparati paralleli dello stato interni all’oligarchia e al sistema di relazioni dell’Alleanza Atlantica, la forza di governo ha impresso al paese una terribile stretta autoritaria: leggi speciali, arresti di massa, chiusura di giornali e media dell’opposizione, repressione di ogni forma di dissenso spontaneo o organizzato, recrudescenza nella persecuzione delle minoranze, in particolare dei curdi, campagne oscurantiste in fatto di diritti civili e sociali, arretramento netto sul fronte dei diritti delle donne.

Una strategia che sembrava imbattibile, fondata com’era sul potere assoluto di un Akp sorretto dal clientelismo e dalle relazioni blindate con l’oligarchia formata attraverso decenni di sviluppismo sfrenato. La sfilza di grandi opere che hanno trasformato in questi anni Istanbul e le altre città occidentali del paese – grattacieli, grandi alberghi, ponti, ferrovie, porti, progetti faraonici a volte utili e più spesso dannosi per la società e l’ambiente – hanno foraggiato le tradizionali cordate imprenditoriali interne e i grandi gruppi esteri (alcuni dei quali provenienti dalle petromonarchie) ma anche un nuovo ceto medio cresciuto grazie alla forte immigrazione dalle zone rurali dell’Anatolia verso i grandi centri urbani. L’Akp si è così costruito un forte consenso di massa che associato alla sistematica repressione della dissidenza politica, sociale e sindacale ha per anni imposto un controllo ferreo alla società turca. Ma negli ultimi mesi le cose hanno cominciato ad andare in maniera assai diversa. La sconfitta dello Stato Islamico a Kobane da parte delle milizie popolari curde ha rovinato i piani di Ankara in Siria, isolandola dai partner europei e statunitensi che chiedevano un impegno più solido contro i jihadisti dell’Is che invece Erdogan non ha mai fatto mistero di tollerare (in realtà di appoggiare e sostenere); la liberazione del Rojava ha consentito una saldatura tra le forze militanti curde della Siria e quelle della Turchia, diminuendo per la prima volta anche l’influenza di Ankara sui curdi iracheni, costretti in parte a rivedere la propria tradizionale strategia collaborazionista sull’onda degli assalti dello Stato Islamico. Inoltre il conflitto tra Erdogan e il suo ex mentore, l’imam imprenditore Fethullah Gulen, ha evidenziato il grado di corruzione dell’entourage del ‘sultano’, oltre a un feroce scontro di potere all’interno dell’establishment turco e dello stesso partito di governo, che recentemente si è spaccato anche sulla road map concordata dopo anni di difficili trattative con il Partito dei Lavoratori del Kurdistan. Per la prima volta i sondaggi danno l’Akp in calo nelle intenzioni di voto, il che potrebbe significare che alle prossime elezioni legislative di giugno Erdogan potrebbe non poter più contare sulla maggioranza assoluta dei seggi e vedere così sfumare la possibilità di trasformare il paese in una repubblica presidenziale attraverso un cambiamento della Costituzione. Il blackout che martedì mattina ha paralizzato per diverse ore quasi tutta la Turchia sembra quasi una efficace metafora del blackout che sta spegnendo la lampadina che il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo mostra nel proprio simbolo e quindi i sogni di gloria del ‘sultano’ e della sua vorace classe dirigente.
Così come i ripetuti attacchi realizzati in questi ultimi giorni dall’organizzazione comunista che ha rivendicato l’assalto al Palazzo di Giustizia di Istanbul e poi il tentato assalto alla Direzione Generale di Sicurezza della città sul Bosforo. Le iniziative del Fronte Rivoluzionario di Liberazione del Popolo si sono risolte tragicamente: 3 militanti morti, uno arrestato, una cinquantina di studenti e attivisti arrestati ad Antalya, Smirne ed Eskisehir con l’accusa di preparare attentati. Ma le azioni dei guerriglieri che sono riusciti ad entrare senza grossi problemi nella teoricamente blindata sede del Palazzo di Giustizia di Caglayan e ad arrivare fin davanti alla porta del quartier generale della Polizia di Fatih armati fino ai denti hanno smontato quell’immagine di sicurezza e controllo ferreo che il regime turco ha continuamente alimentato attraverso la sua propaganda negli ultimi anni. Nonostante la ferrea censura esercitata martedì quando due militanti comunisti hanno preso in ostaggio il magistrato incaricato di indagare sulla morte di Berkin Elvan e accusato di aver colpevolmente insabbiato la ricerca e la punizione dei responsabili, i media del paese ed anche alcuni all’estero sono stati costretti a descrivere quanto accaduto a Caglayan, con i due rapitori di fatto giustiziati dalle teste di cuoio e il procuratore crivellato di colpi da coloro che avrebbero dovuto liberarlo e non da quelli che la stampa nostrana chiama ‘brigatisti’. Anche il Partito Comunista Turco e alcuni ambienti intellettuali vicini al Partito Repubblicano del Popolo – non certo teneri nei confronti delle organizzazioni della sinistra combattente – non hanno potuto fare a meno di denunciare pubblicamente il comportamento delle forze di sicurezza e dei loro responsabili politici.
Martedì tutti i mass media si sono irritati di fronte all’imposizione da parte del governo del silenzio stampa sulla base di “ragioni superiori di sicurezza nazionale”. Reazione comprensibile quella dei giornalisti in un paese che possiede l’assai poco invidiabile record di reporter rinchiusi nelle patrie galere.
Ora il regime dell’Akp non ha solo a che fare con le grandi manifestazioni popolari che dall’epoca dell’occupazione di Gezi Park hanno rotto l’unanimismo di una società turca che sembrava riconoscersi senza crepe nell’ideologia liberal-islamista di Erdogan e soci. Il regime mostra sempre più fratture interne, e se dovesse rivelarsi incapace di gestire adeguatamente la situazione e di garantire gli affari in un periodo incandescente per il Medio Oriente tutto pezzi consistenti dell’oligarchia potrebbero pensare di cambiare cavallo. Alla spina nel fianco rappresentata dalla guerriglia comunista del Fronte Rivoluzionario – che può contare su un assai relativo ma combattivo seguito in alcune parti del paese e in alcuni quartieri proletari di Istanbul, Ankara e altre città – si aggiungono ora anche le minacce e i ricatti degli ambienti islamisti ancora più fondamentalisti dell’Akp, che vorrebbero una stretta religiosa e autoritaria ancora più forte di quella impressa al paese dal ticket Erdogan-Davutoglu. Le correnti estremiste sunnite che il regime dell’Akp ha favorito ora chiedono più spazio e più potere mettendo in difficoltà i precari equilibri di un regime che deve contemperare islamizzazione e liberismo.
Di fronte alle crescenti difficoltà Erdogan e il suo cerchio magico ricorrono sempre più spesso ad una propaganda complottista che descrive i continui rovesci come il risultato delle trame ordite da non meglio precisati poteri oscuri interni ed esterni. Davutoglu ha definito “un successo” l’operazione delle teste di cuoio nel tribunale di Istanbul, accusando un vago “asse del male” di voler spingere il paese verso il caos, e ha annunciato pugno di ferro contro “i terroristi”. “Lo stato non riesce a proteggere il suo pm” ha però accusato il quotidiano di centrosinistra Sozcu. Le opposizioni parlamentari affermano che l’ondata di violenza scatenata in questi giorni dal Dhkpc in realtà giova al governo, perché potrebbe convincere alcuni settori sociali intenzionati a cambiare voto a stringersi attorno all’attuale regime in nome della sicurezza e della stabilità, e non mancano le consuete trite accuse nei confronti della sinistra rivoluzionaria di essere manovrata e manipolata da ambienti interni all’establishment. A certe correnti politiche sfugge – ammesso che siano in buona fede – che la strategia delle organizzazioni combattenti (che poi non la si condivida e la si reputi controproducente è del tutto legittimo) non ha nulla a che fare con le aspirazioni elettorali dei partiti dell’attuale opposizione e non tiene certo conto delle esigenze dei socialdemocratici.
In un mondo scosso dalla competizione tra poli geopolitici in feroce competizione tra loro i complotti e le trame non mancano di certo, e i continui strappi di Erdogan rispetto alla tradizionale sudditanza nei confronti degli Stati Uniti e dell’Unione Europea certo non sono avvenuti senza reazioni. 
Ma la spiegazione di ciò che sta avvenendo in Turchia potrebbe essere più semplice: è iniziato il crepuscolo dell’impero del sultano. Ciò che verrà dopo, se e quando verrà, per ora nessuno è in grado di dirlo.

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