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“Grexit” a un passo, Atene non cede

I margini si riducono col passare dei giorni. L’Unione Europea e la Troika avevano preso la determinazione del nuovo governo greco come una semplice esibizione semi-elettorale, non vera. Del resto, quella contraddizione – propria anche dell’elettorato ellenico – tra voler restare nella Ue e nell’euro, ma senza più il cappio dell’austerità – era troppo evidente per passare inosservata.

E quindi avevano impostato il proprio gioco sul diktat (“dovete fare quello che vi viene detto”) senza soluzioni alternative. In questo modo sono stati bruciati i possibili “piani B” e la rottura del negoziato è diventata, non troppo paradossalmente, più vicina. Atene, infatti, non può fare altri passi indietro.

La Commissione europea, dopo settimane di sforzi infruttuosi, «non è soddisfatta dei progressi fatti finora»; vorrebbe stringere i greci al muro e quindi auspica che «i lavori aumentino di intensità prima dell’incontro informale dei ministri delle Finanze del 24 aprile». Dall’altra parte il ministro delle finanze greco, Yanis Varoufakis,conferma che «la liquidità sta finendo», ma sembra più una minaccia per la Ue che non per la stessa Grecia. Infatti accompagna questo allarme con il rifiuto di «firmare il memorandum» e le richieste dei creditori.

Per lo studioso di livello internazionale prestato alla politica, «I negoziati sono cruciali per l’economia globale non solo per i rischi di contagio, ma anche perché definiscono le procedure dell’Europa». Resta insomma in vita, anche se decisamente più flebile, la speranza di “correggere”, se non proprio riformare, le procedure automatiche di gestione delle crisi finanziarie adottate dall’Unione nei suoi trattati. Proprio per questo, dunque, il goerno greco chiede di restare nella Ue, ma non alle attuali condizioni.

Il problema, serissimo, è che non ce ne sono altre, né “i partner” hanno intenzione di mettere in discussione, a dispetto dell’evidente fallimento certificato proprio dall’evoluzione della cirsi greca.

Atene chiede perciò “investimenti”, mentre dalla TRoika si pretende una “lista di riforme strutturali” identica a quella firmata a suo tempo da Samars e attuata in Italia da Renzi: tagli di spesa, pensioni, sanità, privatizzazioni, liberalizzazioni, nessuna politica di welfare.

L’empasse è chiara. Il Fmi, per esempio, chiede alla Grecia di “rispettare gli impegni e le scadenze”, restituendo i prestiti secondo il calendario sottoscritto da Samars; mentre Atene chiede al Fmi uno slittamento dei pagamenti di maggio.

Ormai molti analisti si stanno esercitando sui possiili scenari di un default greco e le possibili conseguenze negative per l’intera struttura dell’Unione Europea, che sarebbe a quel punto costretta a non considerare più l’euro come “irreversibile” e ad affrontare altre crisi interne senza più alcuna autorevolezza.

Per questo, specie a Berlino, sembrano aver rinunciato a ipotizzare un’uscita di Atene dall’euro pur restando dentro l’Unione Europea. Il “piano B” – necessariamente improvvisato sotto l’incedere del fallimento delle trattative sul Memorandum – dovrebbe prevedere un default ma senza uscita dall’euro. In pratica, ATene potrebbe e dovrebbe bloccare i capitali e chiudere le frontiere (come si fa in casi di fallimento), ma con il consenso di Bruxelles e un minimo di copertura monetaria per evitare che la Grecia sia costretta a battere moneta in proprio.

Non a caso, il giornale più attentonel seguire l’evoluzione della vicenda è IlSole24Ore, di cui qui riproponiamo unp degli editoriali di oggi.

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Il rumore del contagio

di Morya Longo

Sperare che il default della Grecia o la sua uscita dall’euro non abbiano impatto sui mercati e sugli altri Paesi dell’Unione monetaria è come pretendere che una bomba non faccia danni esplodendo. E neppure rumore. Il solo allargamento dello spread tra BTp e Bund di ieri, con il titolo tedesco a nuovi minimi storici, lo dimostra: anche mercati anestetizzati dalla grande liquidità della Bce non sono immuni.

La vera domanda che bisogna porsi è, semmai, se l’eventuale contagio in Europa possa essere gestibile e temporaneo, oppure se non sia in grado di minare le fondamenta dell’Unione europea e dei mercati finanziari.

Sebbene nessuno abbia una risposta certa a questa domanda, è probabile che la realtà possa stare nel mezzo tra le due ipotesi: da un lato oggi l’Europa (grazie agli interventi della Bce) è molto più solida e capace di resistere all’onda d’urto rispetto al 2011-2012, dall’altro l’ipotesi Grexit o di un default di Atene difficilmente provocherebbe solo momentanee turbolenze. Anche perché romperebbe il tabù, su cui si basa l’Unione monetaria, dell’irrevocabilità.

In parole povere: oggi l’impatto sarebbe probabilmente più contenuto di quello che si temeva nel 2012, ma non così contenuto da consentire al mondo politico di sottovalutare il problema. I canali di contagio della crisi greca, sui mercati finanziari e sui vari Paesi dell’Unione europea, possono essere infatti tre: le banche, gli Stati e la politica. E tutti e tre presentano non poche insidie, del tutto imprevedibili oggi.

 

Banche a rischio depositi

Partiamo dalle banche. L’aspetto che più rasserena, su questo fronte, è che ormai gli istituti creditizi europei hanno un’esposizione minima sulla Grecia: se nel 2008 le banche europee erano esposte su Atene per circa 200 miliardi di dollari (dati Bri) e all’inizio del 2012 per 62,6 miliardi, ora hanno in Grecia appena 18,6 miliardi. Le banche italiane hanno un’esposizione verso la Grecia di appena 1,22 miliardi (dai 6,86 del 2009): nulla di problematico. Questo fa infatti scrivere a Fitch che «l’impatto sulle banche non greche sarebbe limitato», e a Standard & Poor’s che gli istituti «hanno meno da temere in caso di Grexit».

Purtroppo, però, questa è solo una parte della storia. In caso di Grexit ci può infatti essere un altro canale di contagio – potenzialmente distruttivo – per le banche: la possibile fuga di depositi dagli istituti dei Paesi deboli. Italia inclusa. «Il rischio esiste – scrive Goldman Sachs in uno studio recente – e neppure una garanzia europea sui depositi potrebbe eliminarlo». Il motivo per cui si può oggi temere per una fuga di depositi è ovvio: se la Grecia uscisse dall’euro e trovasse un modo tecnico-legale per farlo, a quel punto la porta si aprirebbe in via teorica anche per altri Stati. Insomma: l’euro diventerebbe, strutturalmente, revocabile. In questo caso, per le aziende o le persone fisiche che hanno depositi nella banca di un Paese “debole” non avrebbe più molto senso tenere i propri soldi fermi: qualora il Paese uscisse dall’euro, infatti, i loro depositi si svaluterebbero insieme alla nuova “lira” o alla nuova “pesetas”. Avrebbe invece più senso mettere i risparmi in una banca tedesca, dato che l’eventuale futuribile nuovo “marco” regalerebbe ai depositanti un forte apprezzamento. La fuga dei depositi potrebbe dunque colpire le banche dei Paesi deboli per un solo motivo di carattere valutario. Bene inteso, questo non significa che accadrà di certo: si tratta di reazioni che molto hanno a che fare con la psicologia delle masse e con le eventuali rassicurazioni politiche. Per cui imprevedibili. Ma il rischio teorico c’è.

 

Il contagio sugli Stati

Per i Paesi e i Governi dell’area euro il contagio greco potrebbe – sempre in via teorica – arrivare da tre canali: quello finanziario, quello contabile e quello politico. Sul primo fronte il rischio oggi è molto più limitato rispetto a qualche anno fa: con la Bce che stampa denaro comprando titoli di Stato e con lo scudo (mai usato ma sempre pronto) dell’Omt, difficilmente gli spread potranno risalire come accadde tra il 2011 e il 2012. In casi estremi – scrive Goldman Sachs – «la Bce potrebbe agire anche come prestatore di ultima istanza». Qualche turbolenza ci potrebbe essere, certo, ma probabilmente non distruttiva come sperimentato in passato. È per questo che il mercato non ha quotazioni “da panico”, sebbene il movimento di ieri dimostri crescente nervosismo.

Il problema è che gli Stati europei hanno erogato grandi prestiti alla Grecia, che in caso di default difficilmente tornerebbero indietro: complessivamente l’esposizione degli Stati europei, diretta e indiretta attraverso il fondo salvastati, ammonta a 194,7 miliardi di euro (esattamente la cifra che prima era a carico delle “sofferenze” delle banche europee, soprattutto tedesche e francesi, ndr), pari al 2% del Pil dell’eurozona. L’Italia ha prestato ad Atene 40,8 miliardi di euro: non bruscolini per un Paese che considera un “tesoretto” 1,6 miliardi virtuali. Un default della Grecia – scrive Fitch – non avrebbe un impatto sul debito degli altri Stati, ma solo sul lato dei loro attivi. Comunque l’impatto ci sarebbe. Infine un contagio dalla Grecia potrebbe anche arrivare dalla politica. Nel 2015 ci saranno infatti le elezioni in Spagna e Portogallo, con partiti (come Podemos) molto vicini alle posizioni di Syriza in Grecia. Gli eventi ellenici, comunque vadano a finire, potrebbero dunque influenzare la politica di questi Stati. Nel bene o nel male, a seconda dei punti di vista.

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1 Commento


  • Eros Barone

    Da alcuni mesi si susseguono in Italia ed in Europa prese di posizione e manifestazioni in appoggio al governo greco di “sinistra-destra” costituito da Aléxis Tsípras in Grecia. Pur nel rispetto dovuto alle persone che sperano di trovare nel programma riformistico di quel governo e nella trattativa con la Ue per la riduzione del debito sovrano la soluzione dei gravi ed irreversibili problemi che il capitalismo scarica sui popoli, è doveroso spiegare gli errori madornali che i socialdemocratici alla Tsipras stanno commettendo. La vera soluzione non è quella di avviare un improbabile negoziato con la bancocrazia europea, facendolo poggiare su un ‘tesoretto’ elettorale che può rivelarsi quanto mai effimero, come dimostrò tre anni fa la proposta di referendum popolare sull’euro avanzata da Papandreu e l’intransigenza ricattatoria con cui reagì la triade Ue-Bce-Fmi. Il vero problema è quello di organizzare una crescente mobilitazione delle masse diretta a rivoluzionare realmente il sistema capitalistico, spezzando le catene dell’oppressione militare della Nato e dell’oppressione economica e politica della Ue e dell’euro. Se non si comprende che i margini del riformismo, che, in modo sia pure contraddittorio, aveva prodotto qualche risultato per le masse nei cosiddetti “trenta gloriosi” (1945-1975), si sono oggi inesorabilmente esauriti; se non si comprende che questa è una conseguenza della legge della caduta del saggio di profitto e della crisi di sovrapproduzione assoluta di capitale e di forza-lavoro, è inevitabile brancolare nel vuoto e scambiare lucciole per lanterne. Illudere il popolo che possa esistere un ‘capitalismo dal volto umano’ è un errore strategico, che ne riduce sensibilmente le capacità di lotta, aprendo la strada alla destra estrema e populista, in definitiva al fascismo (oggi terzo partito in Grecia). Eppure qualcosa avrebbero dovuto insegnare le illusioni e i fallimenti legati ai nomi di Zapatero e di Hollande: illusioni e fallimenti oggi puntualmente riproposti sotto il nome di Tsipras. Pertanto, non bisogna stancarsi né di mettere in guardia contro questo genere di rischi né di perseguire in Italia, in Europa e nel mondo la riorganizzazione dei comunisti sulla base della teoria marxista-leninista e dell’internazionalismo proletario, condizioni essenziali per battere il capitalismo e l’opportunismo della falsa sinistra.

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