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Ora anche Confindustria vuole la “riforma dell’Unione Europea”

Alla fine i fatti prevalgono sempre sulle parole, le regole, le chiacchiere. L’Unione Europea è stata costruita in un modo tanto bislacco che non può funzionare. E più si dà “regole stringenti”, meno funziona. Come un qualsiasi essere vivente sui si stringa un cappio intorno al collo.

Se ne sta accorgendo anche Confindustria, che dalla prima pagine del suo quotidiano – IlSole24Ore – prova a mettere a tema, in modo ordinato e dal punto di vista delle aziende, la grande esigenza degli imprenditori italiani: “riformare l’Unione Europea”. L’editoriale di Alessandro Plateroti, che qui sotto riportiamo, è un po’ più esplicito e preciso del titolo (Salvare la Grecia non basta più):

Qui non si tratta più di barattare gli aiuti ai greci con promesse del tutto formali (e inattendibili) su sacrifici e riforme, ma di ammettere con onestà intellettuale che la spinta propulsiva del progetto di integrazione monetaria, politica e fiscale con cui è nata l’Unione europea non c’è più, che la difesa delle rigidità di bilancio imposte oggi dai Trattati e il continuo richiamo alle regole matematiche su cui si decidono le sorti dei Paesi sono quanto di meglio per chi cerca di distruggere l’Europa spacciando l’illusione che isolati si stia meglio. Se non passa questo principio, non solo non si arriverà mai a una soluzione definitiva per la Grecia, ma diventerà praticamente impossibile riavviare il processo di integrazione politica e fiscale su nuove e più solide basi: nella situazione attuale, sarà presto difficile trovare anche un solo politico europeista disposto a inserire nel suo programma una maggiore devoluzione dei poteri a favore di Bruxelles.

 Siamo al dunque. Il funzionalismo che si è imposto nella costruzione del sistema dei trattati – “l’integrazione europea come processo dinamico di superamento della sovranità assoluta degli Stati che deve portare all’unione politica senza soluzione di continuità sotto la guida delle élite tecnocratiche formatesi nell’ambito delle istituzioni sovranazionali” – coniugato con l’ordoliberalismo di matrice tedesca (il liberismo delle regole) ha creato una macchina di dispositivi  altamente inapplicabili oppure disastrosi se applicati.

Ma è troppo tardi per tornare indietro. La macchina è strutturata così rigidamente che qualsiasi sforamento delle “regole”, per quanto astratte e dannose siano, implica un processo di dissoluzione dell’unità a forza conquistata.

Ora se ne stanno rendendo conto anche le classi non troppo dirigenti di questo paese. Ed è ovvio che pretendano una “riforma” che conceda maggiore flessibilità nell’applicazione delle stesse regole, il recupero di uno “spirito super partes” che è andato smarrito quanto più emergeva una leadership di fatto – economica, finanziaria, dunque anche politica – del capitale che solo per comodità possiamo chiamare “tedesco”, ma che raggruppa numerosi paesi nordici ormai strettamente interconnessi con l’economia di Berlino.

E’ una via d’uscita illusoria tanto quanto il “riformismo di sinistra”, via perseguita praticamente soltanto dalla Grecia guidata da Syriza, che sta quindi dimostrando – con grande fantasia, ma con le mosse ormai contate – che l’Unione Europea è praticamente irriformabile. Non per capriccio ideologico pro o contro. Ma non c’è alcuna ragione perché debbano cambiare le regole che fin qui hanno così ben giovato ad alcune economie forti a scapito sia delle altre che della crescita complessiva dell’eurozona.

Ed è altrettanto illusria la via proposta dai reazionari nazionalisti di ogni genere, perché è assolutamente vero che l’idea per cui isolati si starebbe meglio è soltanto un’illusione fondata su un’altra illusione da ignoranti: che, insomma, “svalutando la moneta nazionale a piacimento” si protrebbero recuperare margini di competitività e crescita. Bisogna ricordare infatti che l’euro, dalll’inizio della crisi, si è svautato del 35% nei confronti del dollaro (da 1,60 a 1,08, o anche meno), senza che questo abbia prodotto il benché minimo beneficio (al massimo ha ridotto il numero dei fallimenti).

Anche perché, banalmente, se tutti i paesi d’Europa praticano la strada dela “svalutazione competitiva”, ognuno per proprio conto, i supposti vantaggi della svalutazione stessa si annullano.

La via d’uscita non dunque essere che multinazionale, tra aree europee che presentano forti tratti di complementarità e livelli simili di “composizione organica del capitale”. Come per l’America Latina, che ha cominciato a poter impostare la soluzione dei suoi immensi problemi solo sganciandosi dall'”americanizzazione” forzata e dalla dipendenza dal dollaro.

Strada lunga, certamente, e piena di difficoltà. Ma decisamente migliore della pura e semplice morte per asfissia. Peccato, per il capitale, che sia anche una strada tutto sommato “socialista” nell’individuazione delle priorità.

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Salvare la Grecia non basta più

Alessandro Plateroti

«Atene ha finito i soldi: senza accordo sulle riforme andrà in default». L’ennesimo penultimatum al governo greco è stato lanciato a Washington dal Fondo Monetario. Ma sono ormai più di 1.800 giorni, almeno 5 anni pieni, che la crisi greca si trascina sulle cronache e sui mercati, esacerbando relazioni politiche e diplomatiche e soprattutto la stabilità dei mercati finanziari.

Nessuna crisi è mai durata tanto. E soprattutto, mai si è assistito a una così profonda e palese incapacità di sintesi da parte delle grandi istituzioni finanziarie internazionali (e degli stessi governi che ne fanno parte) sulla soluzione da adottare. È stato più facile salvare l’Argentina dopo il default, arginare la crisi finanziaria delle «Tigri asiatiche» o rimettere in carreggiata l’Islanda, l’Irlanda, Cipro e persino il Portogallo, che avviare un dialogo costruttivo con la Grecia sul prezzo delle riforme in cambio degli aiuti. E così, dopo 5 anni di vertici a Bruxelles e Francoforte, riunioni tra ministri e primi ministri, tra banchieri e governatori, le domande restano sempre le stesse: la Grecia andrà in default? Che cosa succederà all’euro, ai titoli di Stato e alle Borse se Atene fosse costretta a uscire dall’eurozona? E in tal caso, è davvero ragionevole aspettarsi un «contagio» politico e finanziario della crisi in Paesi come l’Italia e la Spagna? Gli scenari apocalittici abbondano – non c’è politico, economista, o analista che non abbia detto la sua – e la leadership politica europea non sembra in gradi produrre idee oltre le minacce che ogni giorno rivolge alla Grecia. L’unico rimasto ad appellarsi alla ragionevolezza è Mario Draghi. E il problema, forse, è tutto qui: per quanto Draghi si prodighi e per quanto gli stessi creditori della Grecia riuniti nel Gruppo di Bruxelles (Commissione Ue, Fondo Monetario e Bce) abbiano fatto capire a tutti che la riottosità di Atene non è una ragione sufficiente per mandare la Grecia in default e gettare l’eurozona nell’incertezza, è la mancanza di una chiara volontà politica dei grandi azionisti dell’Europa nel cambiare le regole del gioco su riforme e crescita – in primis la Germania centrista della Merkel, ma anche la Francia socialista di Hollande, che come sempre gioca per sè – a rendere precaria la possibilità di chiudere rapidamente e positivamente la crisi.

Qui non si tratta più di barattare gli aiuti ai greci con promesse del tutto formali (e inattendibili) su sacrifici e riforme, ma di ammettere con onestà intellettuale che la spinta propulsiva del progetto di integrazione monetaria, politica e fiscale con cui è nata l’Unione europea non c’è più, che la difesa delle rigidità di bilancio imposte oggi dai Trattati e il continuo richiamo alle regole matematiche su cui si decidono le sorti dei Paesi sono quanto di meglio per chi cerca di distruggere l’Europa spacciando l’illusione che isolati si stia meglio. Se non passa questo principio, non solo non si arriverà mai a una soluzione definitiva per la Grecia, ma diventerà praticamente impossibile riavviare il processo di integrazione politica e fiscale su nuove e più solide basi: nella situazione attuale, sarà presto difficile trovare anche un solo politico europeista disposto a inserire nel suo programma una maggiore devoluzione dei poteri a favore di Bruxelles .

Finchè questa svolta non sarà accettata, non ci sarà soluzione alla crisi della Grecia. E neanche ai problemi di Italia e Spagna, i cui titoli di Stato marciano appaiati in un singolare duetto che oggi non preoccupa, ma che nel medio-lungo periodo non promette nulla di buono. Per i mercati il ragionamento è semplice: se Bruxelles non è in grado di salvare la più piccola delle economie europee, figuriamoci che cosa accadrebbe con l’Italia o con Madrid. Risultato: malgrado il Quantitative easing, la liquidità fornita ai mercati si sta distribuendo in modo apparentemente distorto, ma con una logica niente affatto irrazionale: i tassi di Italia e Spagna sono la metà di quelli segnati un anno fa (1,4% contro oltre il 3%), ma sono ben al di sopra dei livelli in cui si trovavano due mesi fa (1,02%) all’avvio del QE; al contrario, i tassi tedeschi sia a lungo sia a breve sono finiti ai minimi storici e oscillano intorno allo zero puntando al negativo. E con la Germania, altri 18 Paesi europei hanno attualmente tassi di interesse sotto zero nella curva a breve-medio termine dei rendimenti, un fenomeno mai riscontrato prima d’ora nella storia dei mercati: in cifre, quasi 1,9 trilioni di miliardi di euro di debito pubblico europeo – dalla Germania alla Finlandia passando persino per la Slovacchia – hanno oggi tassi di interesse negativi. Come dire: chi stava bene sta meglio, ma chi stava male resta in quarantena.

Con un’aggiunta non di poco conto: anche se la Bce ha isolato Bonos e BTp dal rischio di contagio della Grecia – i cui decennali sono volati oltre il 12% e la curva dei rendimenti a breve e lungo è ormai strutturalmente invertita – il mercato non sembra avere alcuna intenzione di esporsi più di tanto sui due pesi massimi della periferia europea: sull’Italia, perchè l’economia è ancora è in recessione e per la difficoltà con cui il Governo Renzi tenta di far passare le riforme; sulla Spagna, perchè il Paese iberico si avvicina alle elezioni politiche con un elettorato dall’europeismo incerto. Così come in Grecia è stata l’a ssenza di una svolta nelle politiche europee a spingere gli elettori verso Tsipras, così anche in Spagna – dove l’economia ha ben altra forza rispetto a quella greca – gli elettori potrebbero affidare il proprio voto all’anti-rigorismo di Podemos, aprendo un nuovo fronte di tensione con l’Europa. In questa situazione, i flussi di capitale – compresi quelli che la Bce sperava di indirizzare verso i titoli di Stato di Italia e Spagna – prendono invece direzioni palesemente più rischiose: basti pensare al fondo sovrano della Norvegia, il più grande del mondo con oltre 870 miliardi di disponibilità: ha tagliato gli acquisti di titoli di Stato europei per comprare i bond della Nigeria, che rendono poco meno del 5%. Persino l’Irak vuole una fetta della torta: pochi giorni fa, ha annunciato l’intenzione di riemettere titoli di Stato.

La fuga dal rischio, come è evidente, non solo non è uguale per tutti, ma sta scoprendo nuovi orizzonti in «rifugi» che non sembrano più sicuri di Atene, Roma o Madrid.
Come arrivare dunque alla svolta? Aspettare che dalle urne possa uscire presto una nuova leadership europea è forse un’illusione: dopo il voto europeeodel 2014, 10 diverse presidenze di turno dell’Unione, tre elezioni in Grecia, due in Italia, due in Spagna, una in Germania e una in Francia, la Grecia ancora affonda e l’Europa imbarca acqua. A fermare la deriva non sono finora bastati gli oltre 1.000 miliardi di prestiti straordinari e quasi 100 miliardi di euro spesi finora dalla Bce nel Quantitative easing : l’economia non riparte e i mercati sono instabili. Ma quanto meno, una nuova consapevolezza comincia ad affermarsi: le riforme strutturali, oggi, servono soprattutto a Bruxelles.

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1 Commento


  • Silvano

    Una quota importante del nostro export è verso l’area euro quindi non serve a nulla la svalutazione competitiva dell’euro per migliorare la bilancia commerciale verso questa zona.
    Se si vanno i vedere i dati di export verso paesi europei fuori dall’euro o extra UE si vede che l’export è aumentato.

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