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L’euro non è più “irreversibile”

Stavolta anche Mario Draghi ha dovuto ammetterlo: l’euro unica corre gravi rischi per il crescere delle divergenze all’interno dell’area in cui esercita il ruolo di moneta unica. Divergenze di stabilità economica e politica, di sistemi regolativi, di welfare e di debito pubblico, di livelli o ptenziali di crescita. La sua ricetta, pronunciata a Sintra, è stata però l’apoteosi dell’impotenza: fare tutti le stesse “riforme strutturali”. Con l’avvertenza, più che ovvia, che nessuna politica monetaria può sostituire gli investimenti, privati o pubblici. Ma se non ci sono investitori, nessuna economia può crescere.

Sappiamo che la retorica capitalistica dominante risolve il problema spiegando che, dunque, bisogna creare un “ambiente favorevole all’impresa”. Ma non riescono a spiegare perché – pur avendo ormai un ambiente ultrafavorevole (nessuna tutela vera per i lavoratori dipendenti, salari bassi come mai in rapporto ai diretti concorrenti, basso prezzo del petrolio, liquidità a disposizione in misura praticamente infinita – “il cavallo non beve”. Ovvero gli imprenditori privati non investono, neanche con i tassi di interesse ridotti a zero.

Sappiamo anche – perché lo ammettono anche manager violenti come Sergio Marchionne, oltre che l’analisi strutturale del capitale – che c’è una potente “sovracapacità produttiva”, di fatto inutilizzabile. Solo nel settore automobilistico globale, si potrebbero costruire almeno 100 milioni di auto l’anno. Ma non se ne vendono più di 60. Quindi molti produttori, molti marchi, devono morire. Insieme alle persone che vi lavorano. E non andrà meglio ai “sopravvissuti”, perché i robot sono ormai l’ultima trincea per le imprese che si contendono a forza di riduzione dei costi un mercato che non cresce più. Più facile, in queste condizioni, “darsi alla finanza”, drogati dai quantitative easing pluriennali della Federal Reserve prima, della Bank of Japan e della Bce poi.

Eppure ci sarebbero migliaia di attività necessarie, dalla messa in sicurezza del territorio alle infrastrutture sociali. Ma non garantiscono profitti, tantomeno in tempi rapidi.

Le vie della crescita sono dunque finite. E le differenze interne all’Unione Europea, tra aree che “resistono” e altre che degradano, assumono ormai le caratteristiche di tumori, fonti di metastasi incontrollabili e potenzialmente mortali. Fonti, soprattutto, di conflitti sociali, di delegittamazione dei governi nazionali, di emersione di forze politiche – a destra come a sinistra – apertamente contrarie alla prosecuzione di questa “unione forzata e asimmetrica” sotto il controllo di una ristrettissima élite multinazionale al servizio del capitale multinazionale.

Fin qui era stata solo la Grecia di Syriza a costituire una preoccupazione per l’establishment continentale. Che ha fatto di tutto per piegare il nuovo governo di Atene ai diktat irriformabili della Troika. Stamattina questo establishment si è risvegliato constatando la perdita del fido Rajoy, in Spagna, ridotto nelle amministrative ad “anatra zoppa” dalla contenporanea avanzata di Podemos e Ciudadanos, oltre che di varie sinistre autonomiste o indipendentiste. Tutte forze anti-austerità, anche non se molte contro l’Unione Europea e l’euro.

Ma ha dovuto registare anche la vitoria del populista polacco Duda, apertamente “euroscettico” da destra, che mette a rischio la fedeltà di Varsavia alla politica di Berlino e Buxelles (ricordando che il presidente del Consiglio europeo è un polacco, Donald Tusk, altrettanto di destra ma “ben inserito” nell’establishment continentale.

In più, proprio ieri sera la Grecia – attraverso due ministri – ha annunciato che non rimborserà le prossime rate dovute al Fondo Monetario Internazionale, a meno che “i creditori” (i membri della Troika) non cambino posizione, smettendo di ricattare Atene con il blocco degli aiuti “in cambio” di feroci politiche contro il proprio popolo (taglio dlele pensioni e della sanità, privatizzazioni, rinuncia all’aumento salario minimo, ecc). Il governo sembra dunque intenzionato a rispettare la promessa politica di pochi giorni fa: “se ssiamo costretti a scegliere tra pagare un pensionato o pagare i creditori, noi paghiamo il pensionato”. Di fatto, è il primo passo ufficiale verso il “default” tecnico della Grecia. Con conseguenze sulla costruzione europea – oltre che sulla Grecia, naturalmente – che nessuno fin qui è riuscito a quantificare o individuare con qualche attendibilità.

L’euro non più irreversibile – come aveva ripetuto diverse volte Draghi, ma non questa volta – e si aprono scenari davvero incerti, dalle trasformazioni veloci e violente. Lo hanno capito meglio le borse, che hanno immediatamente fatto scattare tutti i segnali d’allarme.

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