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Anche Draghi non esclude più una “Grexit”

Neanche Mario Draghi ha potuto sciogliere il nodo che sta inchiodando l’Uinione Europea nella trattativa con la Grecia. Non può, e l’ha detto chiaramente, perche la decisione da prendere è polica, non monetaria. Su quest’ultimo piano, che di sua competenza, la Bce da lui guidata ha fatto tutto il possibile: il programma di emergenza Ela «è pari a 118 miliardi di euro, il doppio di quanto era a fine 2014, e corrisponde al 66% del Pil greco, più che per ogni altro Paese dell’Eurozona». Di più: la liquidità alle banche greche sarà fornità «finché saranno solventi e avranno adeguato collaterale».

A lui più che a chiunque altro non può però sfuggire che il “collaterale” posseduto dalle banche elleniche è fatto principalmente di titotli di stato greci; tutt’altro che “adeguati”.

Da oggi alla fine del mese, praticamente ogni giorno prevede una riunione “decisiva” tra delegazioni di Atene e delle varie “istituzioni” internazionali. Il compito di Draghi finisce qui, di fatto, nell’elergizione dell’ultima rassicurazione possibile: «abbiamo tutti gli strumenti per gestire la situazione al meglio», in caso di default greco ma, come avviene di solito dopo avvenimenti così traumatici, «entreremo in acque inesplorate». Scenari in cui fare previsioni è impossibile, e chi le fa è un fesso.

Parlava davanti alla Commissione affari economici del Parlamento Europeo, ma in realtà parlava come sempre ai “mercati”, che ieri si sono mostrati assai più nervosi del popolo greco. Il suo auspicio per un «accordo molto presto» non era dunque soltanto un atto dovuto, ma un cercare di porre – solo a prole, per quanto molto ascoltate – un argine al montare delle paure e quindi della speculazione.

Sia chiaro. Da parte sua non c’è nessuna concessione al governo Tsipras, e mantiene ferme le posizioni degli altri due membri della Troika (Ue e Fmi). Secondo lui, infatti, «la palla in questa fase è nella metà campo di Atene». Anche se l’accordo «serve non solo nell’interesse della Grecia ma anche per l’area euro come insieme».

Peggio ancora. «La situazione economica in Grecia è drammatica», ma «non è responsabilità degli altri Paesi dell’Eurozona o delle istituzioni europee». Il che è semplicemente falso, visto che una falsificazione dei bilanci pubblici ellenici tutto sommato modesta (nell’ordine dei 10 miliardi di euro, o anche meno), fatta dal governo del Pasok guidato da Costas Simitis, nel 2003, si è tradotta in diktat e “aiuti” – miranti a salvare soprattutto le banche europee esposte verso Atene – per 240 miliardi. Da ripagare strangolando le condizioni di vita della popolazione.

Non che il presidente della Bce non veda gli spaventosi limiti dell’architettura istituzionale comunitaria – unica nella storia dell’umanità: una unione monetaria senza uno Stato unico e quindi politiche economiche, fiscali, industriali “compensative” degli squilibri preesistenti – «una costruzione incompiuta finché non avremo gli strumenti per rendere ogni suo membro sostenibile dal punto di vista economico, fiscale e finanziario». Ma il «grande salto» da fare non sembra nelle corde dei pigmei che guidano l’Unione guardando ognuno al proprio interesse nazionale e al soddisfacimento delle attese dei “mercati”.

Così la situazione resta in stallo e i più acuti osservatori della realtà economica continentale, come Wolfgang Munchau, sul Financial Times, arriva rapidamente alla radice del problema: Atene non ha nulla da perdere se dice no ai creditori (trovate l’articolo qui in fondo). Perché l’accettazione dei termini contenuti nel “memorandum” proposto dalla Troika comporterebbe sacrifici decisamente superiori (una contrazione del Pil del 12% o più nei prossimi quattro anni).

Sta tutta qui la possibilità per Alexis Tsipras, come ha fatto anche ieri, di invitare al “realismo” i creditori internazionali. Atene non potrà ripagare quel debito, come sanno tutti; quindi tanto vale “ristrutturarlo”, riducendolo di molto, e provare a rilanciare un’economia nazionale peraltro poco interrelata con il mercato continentale (i tre quarti del Pil vengono dal mercato interno, mentre il restante quarto è fatto soprattutto di attività turistiche).

Posizionesottolineata anche dall’odiatissimo (a Bruxelles e Francoforte) mnistro delle finanze, Yanis Varoufakis. Il quale, intervistato dall’emittente radio Sto Kokkino, ha spiegato che “Quanto è accaduto ieri è che la Grecia ha detto qual è il limite da non oltrepassare. Vediamo le cose in maniera positiva. Realisticamente questo è un buon giorno, perché le cose sono più chiare”. Così chiare che Atene non presenterà altri “piani” ai creditori. Che si trovano di fronte a un incredibile – per loro – “prendere o lasciare”. (vadi anche https://contropiano.org/documenti/item/31370-varoufakis-i-creditori-hanno-trasformato-il-negoziato-in-una-guerra-contro-la-grecia)

Una scelta “suicida”, secondo la retorica neoliberista pompata soprattutto dai media nostrani, ma per nulla “irresponsabile” agli occhi di analisti più autorevoli (come Munchau, appunto). Tanto più che Atene non sta aspettando passivamente che l’Unione Europea e la Troika sciolgano i propri interrogativi interni (per esempio: chi deve dichiarare il default della Grecia? Non la Bce, non la Ue – non è previsto in nessun trattato – forse neanche il Fmi, che comunque può aspettare mesi, dopo il mancato pagamento di alcune rate del rimborso, per fare un passo simile), ma si muove anche al di fuori del cerchio magico Bruxelles-Francoforte-Berlino-Strasburgo. Per essere ancora più chiari, Tsipras volerà a Mosca lo stesso giorno – il 18 giugno – della riunione dell’Eurogruppo, indicato da molti come “l’ultima occasione per la Grecia di trovare un accordo”.

Insomma: la posizione negoziale di Atene è molto meno fragile di come sia stata fin qui presentata. Quindi anche la “necessità” che prima o poi i dirigenti di Syriza si “arrendano” alla Troika è assai meno forte.

È una ottima notizia per tutti coloro che pensano che questa Unione Europea vada semplicemente demolita per dar vita altre forme di cooperazione continentale (o parzialmente continentali, come prevede l’ipotesi di un’”Alba Euromediterranea”) fondate su princìpi e priorità che obbediscono al benessere delle popolazioni e non all’avidità dei “mercati internazionali”.

Naturalmente, non c’è nulla di scontato. Ogni giorno, come avviene in qualsiasi guerra, sia pure senza spargimento di sangue, si possono verificare eventi imprevisti che ne cambiano il corso e l’esito.

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«Perché la Grecia non ha niente da perdere se dice no ai creditori»

di Wolfgang Munchau

Alla fine ci siamo arrivati: Alexis Tsipras deve prendere o lasciare. Che cosa dovrebbe fare il leader di Syriza? Le prossime elezioni in Grecia non sono previste prima del gennaio 2019, e qualsiasi linea d’azione deciderà di assumere dovrebbe portare frutti nell’arco di tre anni, o anche meno. Prima di tutto mettiamo a confronto i due scenari estremi: accettare l’offerta finale dei creditori o abbandonare l’Eurozona. Accettando l’offerta dei creditori, Atene acconsentirebbe a un aggiustamento di bilancio dell’1,7 per cento del prodotto interno lordo nell’arco di sei mesi.

Il mio collega Martin Sandbu ha calcolato l’effetto che avrebbe un aggiustamento di queste proporzioni sul tasso di crescita del Paese. Io ho allargato quei calcoli includendo l’intero programma di aggiustamento richiesto dai creditori nell’arco di quattro anni. Basandomi sulle stesse ipotesi che fa Sandbu sull’interazione tra politica di bilancio e Pil, un processo bidirezionale, arrivo a una botta complessiva sul Pil del 12,6 per cento in quattro anni. Il rapporto debito/Pil della Grecia comincerebbe ad avvicinarsi al 200 per cento. La mia conclusione è che accettare il programma della trojka rappresenterebbe un doppio suicidio: per l’economia greca e per la carriera politica di Tsipras.

L’estremo opposto, la cosiddetta Grexit, garantirebbe un risultato migliore? Ci potete scommettere, e per tre ragioni. La prima, e più importante, sarebbe che la Grecia si libererebbe finalmente di questi deliranti aggiustamenti di bilancio. Dovrebbe comunque puntare a un piccolo avanzo primario, che potrebbe rendere necessario un aggiustamento una tantum, ma solo questo.

La Grecia dichiarerebbe lo stato di insolvenza nei confronti di tutti i creditori ufficiali – il Fondo monetario internazionale, la Banca centrale europea e il Meccanismo europeo di stabilità – e sui prestiti bilaterali ricevuti dai suoi creditori europei. Ma continuerebbe a rifondere tutti i prestiti privati, con l’obbiettivo strategico di riguadagnare accesso ai mercati nel giro di qualche anno.

La seconda ragione è la riduzione del rischio. Dopo un’uscita dall’euro, il rischio di ridenominazione valutaria non rappresenterebbe più un deterrente. E le possibilità di un default totale sarebbero molto ridotte, perché la Grecia avrebbe già dichiarato lo stato di insolvenza nei confronti dei suoi creditori ufficiali, e dunque sarebbe smaniosa di riconquistarsi la fiducia degli investitori privati.

La terza ragione è l’impatto sulla posizione esterna dell’economia. A differenza delle piccole economie del Nordeuropa, quella greca è un’economia relativamente chiusa. Circa i tre quarti del suo Pil sono interni; di quel quarto che non lo è il turismo costituisce la fetta maggiore, e il turismo beneficerebbe della svalutazione. L’effetto complessivo della svalutazione non sarebbe certo importante come per un’economia aperta quale l’Irlanda, ma in ogni caso sarebbe positivo. Dei tre effetti che ho elencato, il primo è il più importante sul breve termine, mentre il secondo e il terzo diventeranno preponderanti nel lungo periodo.

Un’uscita dall’euro naturalmente ha le sue insidie, quasi tutte nel brevissimo termine. L’improvvisa introduzione di una nuova valuta sarebbe caotica. Il Governo potrebbe dover imporre controlli di capitale e chiudere le frontiere. Nel primo anno le perdite sarebbero sostanziali, ma una volta placato il caos l’economia si riprenderebbe rapidamente. Il confronto fra questi due scenari mi fa tornare in mente quell’osservazione di Winston Churchill sull’ubriachezza, che a differenza della bruttezza è transitoria: il primo scenario è semplicemente brutto, e lo rimarrà sempre; il secondo ti procura un’emicrania, ma poi segue una certa sobrietà.

Insomma, se questa fosse la scelta, i greci avrebbero un motivo razionale per preferire l’uscita dall’euro. Ma non è questa la scelta che dovranno prendere questa settimana. La scelta è tra accettare o rifiutare l’offerta dei creditori. La Grexit è una conseguenza possibile, ma non scontata, di un rifiuto.

Se Tsipras dovesse respingere l’offerta e mancare l’ultima deadline – la riunione del 18 giugno dei ministri dell’Economia dell’Eurozona – i rimborsi del debito di luglio e agosto salterebbero. A quel punto la Grecia sarebbe ancora nell’Eurozona, e sarebbe costretta a uscire solo se la Bce riducesse il flusso di liquidità verso le banche elleniche al di sotto dei limiti tollerabili. Cosa che potrebbe succedere, ma non è scontata.

I creditori dell’Eurozona potrebbero a quel punto tranquillamente decidere che è nel loro interesse parlare di un alleggerimento del debito per Atene. Basta considerare la loro posizione: se la Grecia dovesse dichiarare il default sull’intero suo debito nei confronti dei creditori ufficiali, solo Francia e Germania finirebbero per perdere circa 160 miliardi di euro; Angela Merkel e François Hollande passerebbero alla storia come i più grandi perdenti finanziari. Adesso i creditori si rifiutano anche solo di parlare di un alleggerimento del debito, ma le cose potrebbero cambiare se la Grecia cominciasse davvero ad andare in default. Se negozieranno, tutti ne trarranno vantaggio: la Grecia rimarrebbe nell’euro, perché l’aggiustamento di bilancio sarebbe più tollerabile con un fardello del debito meno pesante; e i creditori potrebbero recuperare in parte un denaro che altrimenti andrebbe perderebbero di sicuro. La sostanza, quindi, è che in realtà la Grecia non ha nulla da perdere a rifiutare l’offerta di questa settimana.

Copyright The Financial Times Limited 2015

(Traduzione di Fabio Galimberti – IlSole24Ore)

 

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