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Grecia. Scenario argentino sempre più vicino. Krugman: “Grexit unica soluzione”

Non è un caso che, tra i tanti commenti e le congratulazioni inviate dai leader sudamericani al governo e al popolo greco ci sia quello della presidente dell’Argentina, Cristina Fernández de Kirchner, che ha celebrato il rifiuto opposto dai cittadini greci ai diktat della Troika e dell’Eurogruppo richiamando quanto avvenuto a Buenos Aires alcuni anni fa. «Una rotonda vittoria di democrazia e dignità. Il popolo greco ha detto no alle impossibili e umilianti condizioni che volevano imporre per la ristrutturazione del suo debito estero» ha scritto su Twitter la Presidente argentina. «Noi argentini sappiamo di cosa si tratta. Speriamo che l’Europa e i suoi leader comprendano il messaggio arrivato dalle urne», ha dichiarato Cristina Fernandez de Kirchner, che poi ha aggiunto: «Non si può chiedere a nessuno di firmare il proprio atto di morte».

A richiamare nei giorni scorsi le similitudini tra la situazione attuale della Grecia e quella dell’Argentina sono stati in molti. “Grecia e Argentina sono Paesi lontani e la struttura delle due economie presenta caratteristiche ben diverse. Ma vi è un comune denominatore: entrambi i Paesi sono stati investiti da cinque crisi, distinte ma interrelate: finanziaria, economica, politica, sociale e giudiziaria” scriveva ad esempio Roberto Da Rin sul Sole24Ore qualche giorno fa.
Esattamente 15 anni fa, si ricorda, furono l’intransigenza del Fondo Monetario Internazionale e la scelta del Ministro argentino Domingo Cavallo – soprattutto l’introduzione della parità fissa tra peso e dollaro – a far precipitare la situazione, portando prima al default e poi alla vittoria di ambienti minoritari della classe dirigente locale che posero fine al ‘Washington Consensus” e avviarono una politica economica di stampo post-keynesiano in rotta con i diktat degli Stati Uniti e dell’Unione Europea, favorendo anche un processo di allontanamento di altri paesi dell’area rispetto all’egemonia statunitense e alla radicalizzazione dei progetti di integrazione regionale. I due paesi, afferma Da Rin, hanno molte analogie, come la struttura economica molto debole e il “dettaglio” di essere usciti entrambi da una dittatura militare di estrema destra che ha caratterizzato, anche se con un impatto diverso sulla società e sull’economia, il passaggio tra gli anni ’70 e gli ’80.
Certamente molto, molto simili sono le disastrose conseguenze sociali provocate dai durissimi interventi imposti dalle ‘istituzioni economiche internazionali’ all’Argentina e ora dall’Unione Europea e dal Fondo Monetario Internazionale alla Grecia: disoccupazione alle stelle, taglio drastico di stipendi, pensioni e sussidi, abbattimento dello Stato sociale, della sanità, dell’istruzione pubblica, dell’assistenza sociale, la svendita del patrimonio pubblico e delle infrastrutture. Senza una rottura drastica con l’austerità, insegna la storia argentina, non è possibile bloccare il massacro sociale; ma senza rompere con il sistema che genera e impone l’austerità – cioè i meccanismi economici, ideologici e istituzionali all’interno dei quali i paesi sono diversamente ingabbiati – è impossibile bloccare l’austerità e condurre politiche espansive e progressiste, anche per un governo che pure si dice ‘antiausterity’ come quello guidato da Alexis Tsipras.
Scriveva qualche giorno fa l’economista e premio Nobel statunitense Joseph Stiglitz

“Cinque anni fa, quando è iniziata la crisi in Grecia, l’Europa ha teso la mano, ma il suo aiuto è stato diverso da quello che ci si sarebbe aspettato, se ci fosse stata davvero un po’ di umanità, una reale solidarietà europea. Le prime proposte, in realtà, hanno visto la Germania, seguita dagli altri paesi “soccorritori” trarre profitto dall’emergenza greca, addebitando tassi di interesse molto alti. Inoltre, sono state imposte delle condizioni specifiche alla Grecia (cambiamenti nelle loro micro e macro politiche), in cambio degli aiuti economici.

Queste condizioni fanno parte delle procedure standard di prestito previste dal FMI e dalla Banca Mondiale. In generale, quando hanno imposto le loro direttive, gli stati non avevano un’adeguata conoscenza del funzionamento di certe dinamiche economiche e spesso le pretese nascondevano delle strategie politiche. A tratti, si sono manifestati anche degli elementi di neo-colonialismo. La vecchia Europa che, ancora una volta, diceva alle sue ex-colonie cosa fare. La maggior parte delle volte, però, queste politiche non hanno funzionato come avrebbero dovuto. (…) La disparità tra quello che la Troika supponeva e quello che è emerso è stata impressionante, e non perché la Grecia non abbia agito come ci si aspettava. Anzi, l’ha fatto, ma seguendo modelli e direttive sempre più fallaci. Alla fine, dopo anni di pressioni e richieste per una maggiore austerità (che hanno condotto ad una tremenda depressione economica), la Troika ha spinto il paese sull’orlo del fallimento totale”.

Ad un certo punto del suo intervento Stiglitz richiama proprio le similitudini con lo scenario argentino di 15 anni fa:

“Questa situazione mostra delle somiglianze con quanto accaduto in Argentina nel 2001, con le dovute eccezioni. In entrambi i paesi, la recessione è degenerata, trasformandosi in depressione, in seguito alle politiche di austerità, rendendo il debito insostenibile. In entrambi i casi, queste politiche erano imposte come condizioni necessarie per ricevere assistenza. In entrambi i paesi c’erano rigide imposizioni sulla valuta, che non hanno concesso loro l’opportunità di portare avanti una politica di espansione monetaria durante la recessione. Il FMI ha avanzato previsioni allarmanti sulle conseguenze delle politiche imposte. La disoccupazione e la povertà sono aumentate, mentre il PIL è precipitato. (…) In Argentina la disoccupazione giovanile è salita alle stelle, restando critica per molti anni. La mancanza di opportunità ha soffocato ogni motivazione, ogni spinta, sprecando il talento di milioni di giovani. Una situazione simile alla Grecia oggi, dove la disoccupazione giovanile è al 50%. Le crisi economiche sono un duro colpo, ma lo è anche l’austerità. La Grecia può contare sulla lezione dell’Argentina: si può sopravvivere ai debiti e alla bancarotta.

Le vicissitudini infelici della Grecia devono ricordarci, ancora una volta, quanto già appreso sulla gestione di crisi economiche e debiti. Lezioni che avremmo dovuto imparare da esperienze precedenti. La prima è che non c’è alcuna possibilità di fare passi avanti verso il risanamento del debito, se prima non c’è una ripresa economica. Allo stesso tempo, non ci può essere una ripresa economica senza un ripristino della sostenibilità del debito”.

Forse involontariamente, Stiglitz sembra tirare le orecchie non solo agli arroganti negoziatori della Troika, ma anche agli ‘ingenui’ ministri del governo Tsipras che continuano a perseguire una trattativa impossibile con le istituzioni politiche ed economiche dell’Unione Europea pur sapendo che anche se si arrivasse ad un eventuale accordo questo lascerebbe esattamente tutti i problemi irrisolti:

“Sia in Argentina che in Grecia, ripristinare questa condizione ha richiesto una ristrutturazione del debito sovrano. In entrambi i casi, l’idea di portare a termine una giusta riorganizzazione del debito, che potesse condurre alla ripresa economica, con l’accesso ai mercati di credito internazionali, si è rivelata fin troppo ottimista. (…) In entrambi i casi, le istituzioni creditrici hanno finto che la sostenibilità potesse essere riacquistata attraverso “cambiamenti strutturali”. Non senza una certa pressione, i programmi imposti sono stati accettati e implementati, ma non hanno funzionato. “Scambiare” i fondi bailout – fondi che erano utilizzati per ripagare gli stessi creditori che li stavano fornendo – con promesse di miglioramento ha condotto all’ulteriore indebolimento delle economie dei due paesi. Nel caso dell’Argentina, dopo anni di crisi, la gente è scesa in strada”.

Educatamente ma smentendo la vulgata comune secondo la quale i paesi europei starebbero aiutando i cittadini greci e quindi avrebbero voce in capitolo rispetto ad una eventuale scelta di Atene di denunciare e non pagare una parte consistente del debito, Stiglitz ricorda:

“Chi viene salvato dai bailout (come le banche tedesche e francesi, nel caso della Grecia), di solito si appella al rischio morale per giustificare la mancata ristrutturazione del debito. Afferma che la procedura creerebbe delle condizioni peggiori, in quanto altri debitori sarebbero più inclini ad “abusare” del prestito, senza pagare. Ma il rischio morale è solo una favola. Sia l’Argentina che la Grecia hanno già pagato caro per i loro problemi di debito, dall’inizio del default”.
Il Nobel per l’Economia sembra essere convinto del fatto che una ‘ristrutturazione del debito operata in maniera seria possa in parte risollevare le sorti della Grecia:
“L’esperienza greca ci insegna anche cosa non fare in caso di ristrutturazione del debito. Il paese ha “riorganizzato” il debito nel 2012, ma l’ha fatto nel modo sbagliato. Non era abbastanza per una ripresa economica ed ha comportato un cambiamento nella composizione del debito (si è passati dai creditori privati a quelli “ufficiali), rendendo una successiva ristrutturazione ancora più ardua.
Per certi versi la Grecia sta affrontando una situazione ancora più complessa rispetto all’Argentina. La crisi argentina, infatti, fu accompagnata da una forte svalutazione della moneta che rese il paese più competitivo e che, con la ristrutturazione del debito, creò le condizioni per una ripresa duratura. In Grecia, il default e la Grexit richiederebbero la re-implementazione della valuta domestica. Un conto è svalutare una valuta esistente, altra cosa è crearne una nuova nel bel mezzo di una crisi. Questo ulteriore elemento di incertezza non ha fatto altro che appesantire la pressione della Troika sul governo di Tsipras. Quando il debito non è sostenibile, è necessario ripartire da zero. È un principio basilare e universalmente riconosciuto. Finora, la Troika ha negato questa possibilità alla Grecia. Non ci può essere un nuovo inizio in un clima di austerità (…).” 
Il problema al quale Stiglitz non risponde, è tutto politico: che fare nel caso in cui i ‘creditori’ non accettino l’abbattimento del debito e la smettano di imporre programmi di austerity in cambio di eventuale sostegno economico?
A rispondere è un altro Nobel per l’Economia, Paul Krugman, sul New York Times, ribadendo quello che aveva già scritto prima della schiacciante vittoria dei ‘No’ nel referendum ellenico di domenica scorsa. “È diventato sempre più difficile vedere una strada che non porti a una Grexit. E anche se è ancora una cosa che pochi vogliono accettare, è sempre più ovvio che una Grexit è la migliore speranza della Grecia”. Nel suo intervento Krugman mette in evidenza come senza una Grexit è difficile prevedere da dove possa arrivare la crescita per la Grecia. Anche con una ristrutturazione del debito, infatti, la Grecia sarà costretta a importanti surplus primari strutturali e questo la costringerebbe a sopportare una depressione economica ancora per molti anni.
L’economista statunitense afferma di fatto che è difficile – se non impossibile – prevedere da dove possa arrivare la crescita per la Grecia senza un’uscita dall’Eurozona. “Quello che sarebbe un semplice problema politico, ovvero il caso della Grecia con una propria moneta, diventa un pasticcio quasi insolubile”, spiega Krugman, di cui riportiamo di seguito l’intervento integrale. 

*** ***

L’Europa ha schivato un proiettile domenica. Smentendo molte previsioni, gli elettori greci hanno fortemente sostenuto il rifiuto alle richieste dei creditori da parte del loro governo. E anche i più ardenti sostenitori dell’Unione Europea dovrebbero tirare un sospiro di sollievo.

Naturalmente, i creditori non la metterebbero in questo modo. La loro versione dei fatti, ripresa da molti nella stampa finanziaria, è che il fallimento del loro tentativo di costringere la Grecia alla sottomissione è un trionfo dell’irrazionalità e dell’irresponsabilità sui buoni consigli tecnocratici.

Ma la campagna di sopraffazione — il tentativo di terrorizzare i greci privando le loro banche di finanziamenti e minacciando il caos generale, il tutto con l’obiettivo quasi dichiarato di disarcionare l’attuale governo di sinistra— è stato un episodio vergognoso per un’Europa che afferma di credere ai principi democratici. Se quella campagna fosse riuscita, si sarebbe stabilito un terribile precedente, anche se i creditori avessero avuto ragione.

Per di più, non ce l’hanno. La verità è che i sedicenti tecnocrati europei sono come medici medievali che insistono nel salassare i loro pazienti — e quando il loro trattamento fa ammalare ancor di più i pazienti, essi chiedono di togliere ancora più sangue. Una vittoria del “Sì” in Grecia avrebbe condannato il paese ad altri anni di sofferenza nell’attuare politiche che non hanno funzionato e addirittura, come dice l’aritmetica, non possono funzionare: l’austerità probabilmente riduce il PIL più velocemente di quanto si riduce il debito, quindi tutta la sofferenza non serve a niente. La schiacciante vittoria del “no” offre almeno una possibilità di una via di fuga da questa trappola.

Ma come gestire questa fuga? C’è un modo per la Grecia di rimanere nell’Euro? E questo è in ogni caso auspicabile?

La questione più immediata riguarda le banche greche. Prima del referendum, la Banca centrale Europea ha tagliato il loro accesso a ulteriori fondi, facendo precipitare il panico e costringendo il governo a imporre la chiusura delle banche e i controlli di capitali. La Banca Centrale deve ora affrontare una scelta difficile: se riprendesse il normale finanziamento sarebbe come ammettere che il congelamento precedente era politico, ma se non lo facesse, in pratica costringerebbe la Grecia ad introdurre una nuova moneta.

In particolare, se il denaro non inizia a scorrere da Francoforte (la sede della Banca centrale), la Grecia non avrà altra scelta se non cominciare a pagare salari e pensioni con i.o.u.s, (in inglese I Owe You, ossia “pagherò”) che sarebbero de facto una valuta parallela — e che potrebbero presto trasformarsi nella nuova dracma

Supponiamo che, al contrario, la Banca centrale riprenda la normale erogazione dei prestiti, e che la crisi bancaria si risolva. Rimane ancora la questione di come rilanciare la crescita economica.

Durante i negoziati falliti che hanno portato al referendum di domenica, il punto critico centrale era la richiesta della Grecia di una riduzione permanente del debito, per rimuovere le incertezze che gravavano sulla sua economia. La Troika — le istituzioni che rappresentano gli interessi dei creditori — rifiutò, ma ora sappiamo che un membro della Troika, il Fondo Monetario Internazionale, aveva concluso in modo indipendente che il debito della Grecia non può essere ripagato. Cambieranno atteggiamento ora che è fallito il tentativo di deporre la coalizione di sinistra al governo?

Immaginate, per un momento, che la Grecia non avesse mai adottato l’Euro, che avesse semplicemente fissato il valore della dracma a quello dell’euro. Cosa suggerirebbero di fare le semplici analisi economiche di base? La risposta, a stragrande maggioranza, sarebbe che dovrebbe svalutare — lasciare scendere il valore della dracma – sia per incoraggiare le esportazioni sia per uscire dal ciclo della deflazione.

Naturalmente, la Grecia non ha più una propria moneta, e molti analisti erano soliti affermare che l’adozione dell’euro era una decisione irreversibile— dopo tutto, ogni accenno di uscita dall’Euro avrebbe scatenato una devastante crisi bancaria e una crisi finanziaria. Ma a questo punto la crisi finanziaria c’è già stata, così che i maggiori costi di uscita dall’Euro sono stati pagati. Perché, allora, non godere dei benefici?

L’uscita greca dall’Euro avrebbe lo stesso, grande successo della svalutazione dell’Islanda nel 2008-09, o l’abbandono dell’Argentina della sua politica un-peso-un-dollaro nel 2001-02? Forse no — ma consideriamo le alternative. A meno che la Grecia riceva davvero una grossa cancellazione del debito, e forse anche se la ricevesse, lasciare l’euro offre la sola via di fuga plausibile dal suo incubo economico senza fine.
E cerchiamo di essere chiari: se la Grecia alla fine lascia l’euro, non significa che i greci sono cattivi europei. Il problema del debito della Grecia significa creditori irresponsabili tanto quanto debitori irresponsabili, e in ogni caso i greci hanno pagato per i peccati del loro governo molte volte. Se non riescono a prosperare all’interno della moneta comune europea, è perché quella moneta comune non offre nessun aiuto ai paesi in difficoltà. La cosa importante ora è fare tutto il necessario per terminare l’emorragia.

L’intervento originale di Krugman qui: http://www.nytimes.com/2015/07/06/opinion/paul-krugman-ending-greeces-bleeding.html?rref=collection%2Fcolumn%2Fpaul-krugman&_r=1

 

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