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Negli Stati Uniti ritorna il Ku Klux Klan

Il Ku Klux Klan è tornato. Anzi, in realtà non è mai andato via. E non è una battuta o un’esagerazione. Il movimento razzista statunitense, quello dei cappucci bianchi a punta, dei roghi, delle svastiche e del white power: proprio loro. E fondamentalmente fanno sempre le stesse cose, tanto che nelle ultime settimane i roghi delle ‘black church’ sono stati così tanti da spingere l’Fbi ad aprire una vasta indagine su larga scala: l’ultimo caso è stato registrato pochi giorni fa, a Houston in Texas, con la storica Fifth Ward Missionary Baptist Church completamente distrutta in un incendio doloso.

Domenica pomeriggio, a Columbus (South Carolina) sulle scale del palazzo del governo si è riunito un gruppo (neanche molto numeroso, in realtà) di suprematisti bianchi, tutti lì schierati per difendere la bandiera confederata, ammainata dopo la strage nella chiesa di Chesterton dalla governatrice repubblicana Nikki Haley in quanto ‘simbolo di odio e discriminazione’. Il vessillo sudista, negli Usa, viene considerato sempre più una istigazione all’odio, un cimelio dei tempi dello schiavismo e dei campi di cotone. Questo i razzisti del Kkk lo sanno bene e proprio per questo la difendono per ciò che rappresenta, anche se alcuni ingenui difensori della bandiera confederata fanno finta di niente: da queste parti il ‘white power’ si gioca a carte scoperte, in maniera molto più naif che nella vecchia Europa, dove il fascismo ha contorni sempre diversi, almeno di facciata: danne nostre parti si usano termini come ‘sovranisti’, ‘nazionalisti’ o amenità del genere, dall’altra parte dell’Atlantico si espongono direttamente le croci uncinate. Così, per non lasciare margini di dubbio.

Il redivivo Ku Klux Klan, però, non fa più paura come una volta, a dire il vero: infatti mentre le teste rasate campeggiavano a Columbus, in strada sono arrivati quelli del New Black Panther Party, autoproclamatisi eredi del movimento afroamericano degli anni ’60 e ’70, impegnati a manifestare in favore degli insegnanti che manifestavano per i loro diritti e i loro stipendi. La tensione tra i due gruppi è salita alle stelle ed è esplosa nel giro di una manciata di minuti: inseguimenti, botte, un militante xenofobo immortalato mentre se la fa letteralmente sotto davanti ad un ragazzone di colore che gli inveisce contro e una bandiera sudista data alle fiamme. La stampa ha cercato di iniettare una qualche dose di buonismo spammando la foto di un poliziotto afro che aiuta un razzista con la coda tra le gambe. Il bilancio della polizia riporta: cinque arresti e ventitré feriti.

La questione del ritorno in pubblico del Kkk ha scosso l’opinione pubblica statunitense, anche se non si può certo parlare di sorpresa: non sono più gli anni ’20 quando i simpatizzanti erano stimati in quattro milioni, ma si ritiene comunque che tra i 21 gruppi sparsi sul territorio nordamericano, i militanti della sigla – una delle tante dell’arcipelago razzista – siano circa quattromila. Si tratta di fazioni sparse, senza grande credibilità, con strutture interne discutibili e spesso in conflitto tra loro, ma le azioni violente non si sono mai realmente fermate.

In uno dei suoi ultimi film, Woody Allen sosteneva che «averne uno alla Casa Bianca non vuol dire che per un nero sia più facile prendere un taxi», adesso sappiamo anche che, almeno negli stati del sud, le teste rasate vanno ancora di moda.

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