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Turchia nel caos, decine di morti tra i guerriglieri del Pkk e i soldati

In alcune regioni della Turchia, si combatte ormai una vera e propria guerra le cui dimensioni sembrano estendersi di giorno in giorno. Nelle ultime ore è giunta la notizia che altri 14 poliziotti sono stati uccisi (12 sono deceduti subito ed altri due sono morti in ospedale in conseguenza delle ferite riportate) nel corso di un attacco ad un minibus delle forze di sicurezza nella provincia orientale di Igdir, ad Hasankoy. Secondo l’agenzia ufficiale Anadolu, il minibus sarebbe saltato in aria su una mina piazzata dai guerriglieri del Partito dei Lavoratori del Kurdistan nei pressi del confine con Azerbaigian, Armenia e Iran. Nell’attacco sono rimasti feriti altri tre agenti di polizia. Secondo l’emittente televisiva Ntv il bus che trasportava gli agenti faceva da scorta ad un gruppo di lavoratori che si stavano recando al valico di frontiera di Dilucu.
Immediatamente dopo l’imboscata le forze di sicurezza turche hanno iniziato una vasta operazione di repressione nella regione, mentre proseguono i bombardamenti dei caccia di Ankara contro le postazioni del Pkk nel Nord dell’Iraq e nelle regioni turche a maggioranza curda. Secondo le notizie diffuse dal governo 50 caccia F-16 ed F-4 hanno bombardato durante la notte le postazioni dei guerriglieri uccidendo tra i 35 e i 40 membri del movimento curdo. Tra le zone bombardate anche l’area di Qandil, storica roccaforte dei combattenti curdi e sede del quartier generale della guerriglia, e le località di Hakurk, Zap, Metina, Gare e Basyan. 
Ma le dimostrazioni muscolari e le cupe minacce di Erdogan – “sradicheremo il Pkk dalla Turchia” hanno affermato all’unisono ieri sia il presidente-sultano sia il capo del governo Davutoglu – il paese è sotto choc per l’entità delle perdite che i guerriglieri curdi riescono ad infliggere alle forze armate e alle forze di sicurezza in generale. Sono decine i morti in pochi giorni e a pesare sull’immagine propagandistica diffusa finora dal regime turco è soprattutto l’attacco di Daglica, nell’estremo sud-est del paese, dove il Pkk ha colpito domenica un convoglio di militari uccidendone 31 secondo la guerriglia. Ci sono volute ben 24 ore prima che il governo e lo Stato Maggiore ammettessero di aver subito ingenti perdite, “ridimensionate” a 16 militari morti e a 6 feriti. Secondo la ricostruzione fornita dallo Stato maggiore, l’attacco si è svolto in due fasi: nella prima, una mina attivata a distanza ha fatto esplodere il convoglio di un team di sminatori che stava effettuando un sondaggio nella valle di Doski. Poco dopo, un’altra mina, attivata sempre a distanza, ha fatto saltare in area una pattuglia appena arrivata in soccorso. All’agguato sono seguiti scontri diretti tra esercito e guerriglieri, questi ultimi poi presi di mira dalle bombe sganciati dai caccia inviati da Ankara a colpire le colonne di combattenti curdi che ripiegavano verso le montagne al confine con l’Iraq. 
Lo Stato Maggiore ha giustificato il ritardo nella diffusione delle notizie sull’attacco subito affermando che le cattive condizioni climatiche hanno ritardato l’arrivo dei soccorsi nella zona di confine e il recupero dei corpi dei soldati caduti. Tuttavia, secondo quanto comunicato dal giornalista Zeki Dara al portale informativo Bianet, nella regione di Daglica gli scontri tra il Pkk e i militari turchi starebbero andando avanti già da tre settimane. Il giornalista, affermando che il flusso di informazioni su quanto sta accadendo nella regione è molto confuso, ha citato alcune dichiarazioni dell’ex sindaco di Hakkari (capoluogo della zona dei combattimenti) secondo cui nella regione starebbero “accadendo cose che vanno oltre quelle che compaiono sui media”. 
Sabato scorso 32 attivisti politici legati al Partito Democratico dei Popoli (con loro si trovava anche la giornalista olandese Frederike Geerdink) sono stati fermati proprio nella zona di Hakkari mentre tentavano di monitorare la situazione e riportare la calma nella regione dove infuriano i combattimenti tra guerriglieri e soldati e dove anche nei centri abitati si è ormai di fronte ad un vero e proprio assedio militare contro la popolazione civile che risponde con proteste e barricate.
Ieri pomeriggio un nuovo gruppo di ‘scudi umani’, composta questa volta da 200 persone – per lo più attivisti curdi – si è diretto proprio a Daglica per recuperare i corpi dei militari uccisi.
Ospite del canale televisivo governativo Atv, il presidente Erdogan ha tentato di distogliere l’attenzione sui continui rovesci delle forze armate nel contrasto alla guerriglia affermando che l’escalation degli scontri degli ultimi mesi sarebbe dovuta al fatto che “il Pkk ha utilizzato il processo di risoluzione [di pace con i curdi] per aumentare il proprio stock di armi nel sudest”. Questa, a detta del presidente, sarebbe la motivazione dei coprifuoco che continuano a essere indetti in diverse località del sudest: “I nostri prefetti possono così vedere chi c’è nelle case”, ha spiegato Erdogan e, con riferimento al recente pacchetto di sicurezza – approvato prima delle ultime elezioni tra le proteste delle opposizioni – ha anche ribadito che le forze militari e di polizia “sono state autorizzate anche a sparare”. Consiglio – quello di mettere mano alla pistola – che i poliziotti impiegati a migliaia per attaccare le città dove più forte è il radicamento del movimento curdo non si sono certo fatti ripetere, basta guardare l’altissimo numero di manifestanti e semplici passanti uccisi nelle ultime settimane dal fuoco indiscriminato delle forze di sicurezza contro case e proteste.
La situazione risulta particolarmente drammatica a Cizre, città nella provincia di Sirnak dove alle elezioni del 7 giugno l’Hdp ha preso circo il 90% dei voti. La prefettura, adducendo a motivi di sicurezza e di lotta al Pkk, venerdì scorso ha imposto il coprifuoco a tempo indeterminato ed ha bloccato quasi del tutto le linee telefoniche e i collegamenti internet isolando quasi completamente la regione. Le opposizioni curde hanno tentato di bloccare il provvedimento facendo presentare un ricorso a due legali. Secondo il quotidiano di sinistra turco Radikal nel ricorso presentato i due avvocati avrebbero affermato che “la salute della popolazione di Cizre composta da 150 mila anime è in serio pericolo perché non si riescono nemmeno a seppellire i morti. Allo stesso modo non si permette a nessuno, deputati, rappresentanti della società civile o giornalisti che siano, di entrare nella cittadina”. Dopo giorni di attesa, alcuni parlamentari del Partito democratico dei popoli (Hdp) che sono riusciti ad entrare in città, hanno denunciato ben 6 morti provocati dalla repressione di polizia ed esercito, tra cui due bambini (uno è un neonato di soli 35 giorni, un’altra una ragazzina di 13 anni), due persone colpite da infarto e due giovani uccisi dalle pallottole vaganti. La città rimane da giorni circondata da un massiccio schieramento militare mentre carri armati e blindati penetrano spesso nei quartieri.
Mentre il numero dei morti continua ad aumentare a livello esponenziale, accanto alle famiglie dei militari uccisi che affermano di “sacrificare volentieri i figli per la patria” si sollevano sempre più anche le voci delle famiglie che criticano Erdogan e il governo, ritenendoli responsabili per la situazione in corso, ma il presidente si limita a definirli “padri dal carattere inaffidabile”. Ed ha poi aggiunto: “se avessimo ottenuto 400 deputati alle scorse elezioni, tutto questo non starebbe accadendo”.
Qualche giorno fa il Comando generale della gendarmeria – la polizia militarizzata – ha addirittura avviato un’indagine contro il tenente colonnello Mehmet Alkan che si era pubblicamente scagliato contro l’Akp addossandogli la responsabilità per la morte di suo fratello, il capitano Ali Alkan, ucciso in un conflitto a fuoco con alcuni guerriglieri del Pkk a Şırnak. “Chi è l’assassino di mio fratello? Perché quelli che hanno parlato di soluzione fino a ieri adesso dicono guerra fino alla fine?” aveva urlato Mehmet Alkan, indossando la sua divisa militare mentre partecipava al funerale del fratello. Alkan aveva anche detto, riferendosi al Ministro dell’Energia Taner Yıldız che aveva da poco dichiarato di voler diventare un martire nella lotta contro i ‘terroristi curdi’: “Coloro che dicono di voler cadere martire sono in giro in palazzi con 30 guardie del corpo e veicoli blindati! (…) Se si vuole diventare martiri si dovrebbe andare sul campo di battaglia e farlo lì”.
Dichiarazioni che all’ufficiale sono costate non solo la sospensione dal servizio e una inchiesta ma anche accuse da parte degli ambienti politici islamisti e di alcuni giornalisti filogovernativi di “parlare come uno dell’Hdp”.
Mentre la morsa della censura governativa sulla stampa aumenta e ogni giorno qualche giornalista turco o straniero finisce in manette o viene denunciato o multato perché critica il regime, da segnalare ieri un assalto da parte di circa 150 militanti del partito islamista di Erdogan, l’Akp, contro la sede del quotidiano Hurriyet, accusato di essere strumento dell’opposizione ‘antislamista ed antipatriottica’ solo perché diffonde qualche notizia in più rispetto a quelle fornite dai media filogovernativi.
Intanto sono in molti a chiedersi cosa ci facciano due esponenti del Partito Democratico dei Popoli all’interno di un governo elettorale – che dovrà traghettare il paese verso le elezioni del 1 novembre – dominato da esponenti dell’Akp e che comunque non ha alcun potere, esautorato completamente da un regime saldamente in mano all’asse Erdogan-Davutoglu.

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