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Siria. Usa e petromonarchie armano i ribelli, attaccata l’ambasciata russa

Sembra che nelle ultime ore, non potendo contrastare le forze aeree di Mosca che stanno martellando città e postazioni controllate dai ribelli, le forze islamiste che si oppongono al regime di Bashar Assad abbiano ripiegato su obiettivi più a portata di mano. Questa mattina due proiettili di lanciagranate sono infatti stati sparati a Damasco contro la rappresentanza diplomatica di Mosca nel quartiere di Mazraa, provocando alcuni danni materiali ma nessun ferito né tra il personale dell’ambasciata né tra i circa 300 manifestanti che si erano radunati nei pressi del compound a sostegno delle operazioni militare russe nel paese. “Due granate sono cadute nel perimetro dell’ambasciata. Uno dei due non lontano dal campo sportivo, l’altro sul tetto di un immobile residenziale” ha specificato il ministro degli esteri di Mosca Sergej Lavrov, nel corso di una conferenza stampa.

Nelle ultime ore il capo del Fronte al Nusra, organizzazione militare jihadista affiliata ad al Qaeda e che secondo Washington e alcuni paesi europei sarebbe da considerare un interlocutore moderato da utilizzare contro lo Stato Islamico, ha lanciato un appello agli estremisti islamici attivi nel Caucaso affinché attacchino civili e militari russi per vendicare gli attacchi aerei di Mosca in Siria. “Se l’esercito russo uccide il popolo della Siria, allora uccidete il loro popolo”, ha detto Abu Mohamed al Jolani, capo del Fronte al Nusra, in una registrazione audio diffusa ieri sera. “E – ha continuato – se uccidono i nostri soldati, allora uccidete i loro soldati. Occhio per occhio”.
Intanto però l’offensiva di terra scatenata a metà della scorsa settimana dall’esercito siriano in collaborazione con gli Hezbollah e le milizie sciite iraniane sta ottenendo i primi importanti risultati sul campo grazie anche alla copertura aerea dei caccia e degli elicotteri russi. In pochi giorni ed in seguito ad aspri combattimento, i lealisti hanno riconquistato una serie di importanti località nelle province di Latakia, Hama e Idlib, bombardate nei giorni scorsi dai russi. Si tratta di zone strategiche perché circondano alcune importanti comunità alawite o dividono l’una dall’altra le roccaforti governative sulla costa e queste da Damasco. Gli occidentali e i ribelli accusano Damasco e Mosca di colpire le ‘opposizioni moderate’ rafforzando in questo modo lo Stato Islamico, ma appare evidente che la strategia del fronte filogovernativo prevede due tempi: in primo luogo la riconquista dei territori del centro e del nord ovest del paese, fino al confine con la Turchia, e poi una volta create le condizioni una nuova massiccia offensiva contro i territori controllati dal Califfato a partire dalla sua “capitale” Raqqa.
Intanto ai vari gruppi jihadisti e islamisti utilizzati in questi ultimi anni dall’occidente come strumento di destabilizzazione del governo siriano, a volte collaborativi con Daesh a volte in competizione con lo Stato Islamico, stanno giungendo quei massicci aiuti militari che erano stati annunciati la scorsa settimana dal presidente statunitense Obama. Il New York Times ha parlato ad esempio della fornitura a gruppi di ribelli siriani di un gran quantitativo di armi e in particolare di numerosi missili anticarro. Secondo il quotidiano a stelle e strisce la fornitura sarebbe stata intensificata rispetto al passato proprio per permettere ai ribelli di far fronte ai continui raid russi. I comandi militari di Washington hanno informato di aver paracadutato a delle “milizie siriane moderate” non meglio identificate ben 50 tonnellate di munizioni di piccolo calibro e bombe a mano con un lancio avvenuto nella provincia settentrionale di Hasakah.
Secondo i media arabi anche Riad e le altre petromonarchie avrebbero accelerato i rifornimenti di armi pesanti e sistemi tecnologici per permettere ai loro protetti di Al Qaeda e di alcune brigate dell’Esercito Siriano Libero di mantenere perlomeno le loro posizioni in Siria.
Dopo l’intervento diretto russo in Siria Washington ha deciso improvvisamente di dismettere il tanto decantato piano per reclutare e addestrare ribelli arabi da scagliare contro il governo di Damasco con la scusa di combattere Daesh – anche perché la maggior parte di quelli formati e armati sono andati a ingrossare le file di Al Qaeda quando non dello Stato Islamico – ed ha deciso di destinare i 500 milioni di euro stanziati dal Pentagono all’addestramento di 20 mila curdi. In vista dell’aumento del sostegno statunitense la resistenza curda in Siria ha annunciato la costituzione delle Forze Democratiche Siriane, un fronte di cui fanno parte non solo le Unità di Autodifesa del Popolo (le Ypg espressione del Pyd, partito gemello del turco Pkk) ma anche alcuni gruppi armati arabi o composti da cristiani siriaci. Tra questi alcune brigate non jihadiste dell’Esercito Siriano Libero già attive nella liberazione di Kobane, le milizie Assire del Mawtbo Fulhoyo Suryoyoe e quelle arabe del Sanadid. Lo scopo della nuova coalizione – che si presenta “contro l’estremismo, per la democrazia e il laicismo” – sarebbe in primo luogo liberare Raqqa.

Una difficile prova di equilibrismo da parte della guerriglia curda che tenta di sfruttare le divisioni tra Washington e Turchia approfittando delle difficoltà degli Stati Uniti per accreditarsi come l’unico partner occidentale in grado di sconfiggere sul campo le milizie dell’Isis; ma anche un gioco pericoloso viste le continue giravolte dell’amministrazione statunitense in tema di Medio Oriente che non ha mancato di sconcertare ciò che rimane dell’Esercito Siriano Libero finito da due settimane sotto le bombe russe.
Le deboli e ormai definitivamente screditate “opposizioni siriane” riunite nella cosiddetta Coalizione Nazionale hanno intanto fatto sapere di non essere disponibile a sedersi al tavolo negoziale con il governo sotto l’egida delle Nazioni Unite. «Non pren­de­remo parte ai gruppi di lavoro con­sul­tivi. Ci consideriamo legati a Gine­vra, alle riso­lu­zioni del Con­si­glio di Sicu­rezza Onu e alla fine dell’aggressione russa, come basi per la ripresa del nego­ziato» recita il comunicato di una Coa­li­zione i cui fili vengono mossi ad Ankara, a Londra, a Washington, a Parigi e a Riad e che ormai è praticamente scomparsa dal terreno nel paese di cui afferma di essere il legittimo rappresentante. Contro ogni evidenza, la Coalizione insiste nel dettare precondizioni all’inizio del dialogo promosso dall’inviato dell’Onu Staffan De Mistura – “prima la formazione di un governo di transizione senza la presenza del dittatore siriano” –  quando in realtà lo stesso Vladimir Putin, e lo stesso Assad prima ancora, avevano confermato la disponibilità a venire incontro ad alcune delle richieste delle opposizioni, per quanto etero dirette. Putin ieri era stato chiarissimo: «Nostro compito è quello di stabilizzare il governo legit­timo e creare le con­di­zioni per un com­pro­messo poli­tico». 

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