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“Colpo di stato”: la Turchia al voto tra guerra, repressione e censura

Era dal colpo di Stato militare di destra del 1980 che il regime non si scatenava in maniera così brutale contro tutte le opposizioni esistenti nel paese: curdi, sinistre, islamisti non allineati, media critici o indipendenti, intellettuali.

Oggi nelle edicole non sono stati distribuiti i quotidiani Bugun e Millet, di proprietà del gruppo Koza Ipek vicino al movimento Hizmet guidato dall’imam/imprenditore Fethullah Gulen, ex padrino di Erdogan ma ora protagonista di un duro scontro di potere con il ‘sultano’ che contro di lui ha addirittura fatto spiccare un ordine di cattura internazionale per ‘terrorismo’. L’Akp accusa l’ex sostenitore dell’attuale presidente di aver ordito un complotto per rovesciare il governo attraverso uno ‘stato parallelo’ che può contare su una vasta rete di poliziotti, magistrati, giornalisti, militari e funzionari, espulsi a migliaia dall’amministrazione pubblica, dai media e dalle forze armate negli ultimi due anni in una impressionante purga lanciata da Erdogan.
La Polizia, che ieri ha letteralmente assaltato le redazioni dei due quotidiani ha impedito che l’edizione odierna andasse in stampa. Nell’incredibile blitz di ieri i reparti antisommossa mobilitati in gran numero hanno preso il controllo anche di due emittenti televisive – Bugün tv e Kanaltürk – anch’esse vicine a Hizmet: in diretta tv, gli agenti hanno prima disperso con i lacrimogeni e ‘mini idranti’ dipendenti e giornalisti che cercavano di difendere la sede di Istanbul del gruppo Koza Ipek, per poi occupare i locali delle redazioni e della regia insieme agli amministratori nominati dal tribunale (molti dei quali membri del partito di governo).
L’account su Twitter di Millet ha pubblicato quella che avrebbe dovuto essere la prima pagina che ritrae un’edizione insanguinata del giornale con la scritta “sanguinoso colpo di stato”. “Abbiamo completato il nostro giornale alle 15:00 (di mercoledì) e lo abbiamo mandato in stampa alle 17:00. Hanno preso tempo adducendo problemi tecnici fino alle 21:00. E poi ci hanno detto che non si poteva mandare in stampa perché c’è un divieto scritto” ha raccontato l’ex direttore di Bugun, Erhan Basyurt, che insieme ad altri due giornalisti di punta è stato licenziato stamattina dal nuovo consiglio d’amministrazione, nominato dopo il commissariamento.
Già la scorsa settimana un ente governativo aveva imposto l’imminente interruzione delle trasmissioni di ben sette canali critici nei confronti dell’esecutivo da parte dell’operatore satellitare di stato Türksat.
Ma non è solo nei confronti degli ex alleati di Hizmet che gli islamisti al potere hanno scatenato una campagna repressiva senza precedenti negli ultimi decenni. Nei giorni scorsi minacce esplicite da parte del governo, dell’Akp e dell’estrema destra nazionalista dell’Mhp sono stati indirizzati contro i media del gruppo Dogan e il quotidiano Cumhuriyet, la cui sede è stata assaltata due volte da ultrà islamo-nazionalisti e i cui amministratori e giornalisti sono da tempo target di aggressioni mediatiche, giudiziare e politiche. Ed anche fisiche, come il presentatore televisivo Ahmet Hakan, che dopo aver partecipato ad una popolare trasmissione della Cnn Turk è stato pestato da alcuni balordi riconducibili al partito di governo. Mentre l’imprenditore Aydin Dogan, proprietario di alcuni importanti media, è stato addirittura accusato di sostenere “i terroristi curdi”, alcuni giornalisti e il direttore di Cumhuriyet sono sotto processo dopo che il quotidiano aveva rivelato che i servizi segreti di Ankara avevano gestito l’invio di un ingente quantitativo di armi ai jihadisti dello Stato Islamico. Il direttore di Zaman, popolare quotidiano gulenista, è finito invece nel mirino per vilipendio nei confronti del capo dello stato…
Quelli citati sono tutti media appartenenti in qualche modo al sistema di potere turco degli ultimi decenni, legati a pezzi dell’establishment, come la rete politico/affaristica di Gulen oppure imprenditori legati al Partito Repubblicano del Popolo. Per i media realmente indipendenti, di sinistra o espressione del movimento curdo la situazione è assai peggiore, con una ventina di siti di riviste e agenzie di stampa oscurati per ordine di una autorità per le telecomunicazioni strettamente manovrata dal governo e a capo della quale Erdogan ha piazzato un ex fedele dirigente del Mit, l’intelligence turca.
Mentre durante il fine settimana l’esercito turco bombardava a più riprese i combattenti delle milizie popolari curde a Tal Abyad – liberata dallo Stato Islamico nei mesi scorsi e che permette la continuità territoriale tra i cantoni del Rojava governati dal Pyd curdo nel nord-est e nel nord-ovest della Siria – le forze di sicurezza di Ankara hanno anche dedicato un qualche sforzo al contrasto dell’Isis. Secondo quanto riferito da fonti ufficiali, una settantina di presunti appartenenti a Daesh sarebbero stati arrestati nel corso di varie retate a Konya, Cumra, Kocaeli e Istanbul, mentre a Diyarbakir, la principale città curda, in una sparatoria seguita ad una esplosione morivano sette jihadisti e due poliziotti. Secondo una ricostruzione ancora parziale, gli scontri a fuoco, durati ore, sarebbero iniziati dopo l’assalto di un commando dello Stato Islamico contro una stazione di polizia. Molti oppositori di Erdogan si chiedono però se non si tratti in realtà di una sceneggiata per accreditare, a pochi giorni dalle cruciali elezioni del primo novembre, il ‘sultano’ come nemico dell’integralismo terrorista islamico, oltre che dei curdi, in modo da convincere settori sia laici sia ultranazionalisti e sciovinisti a sostenere il partito al potere che spera domenica di riconquistare la maggioranza assoluta persa nelle urne lo scorso 7 giugno.
A parziale smentite delle fantasiose e infamanti accuse di Erdogan a proposito degli attentati di Suruc e di Ankara – “gli autori sono l’Isis, il Pkk, i curdi siriani e il governo di Damasco” aveva strillato a più riprese il ‘sultano’ – l’ufficio del procuratore generale della capitale turca, incaricato dell’inchiesta sulla strage alla manifestazione contro la repressione del 10 ottobre, ha affermato di possedere “prove serie” che l’attentato sia stato compiuto da una cellula jihadista turca direttamente agli ordini del quartier generale di Daesh in Siria. Per il Procuratore Generale, a colpire la folla di sinistra vicino alla stazione dei treni di Ankara sarebbero stati dei miliziani dello Stato Islamico basata a Gaziantep, al confine con la Siria, il cui obiettivo era obbligare il governo “a rimandare le elezioni politiche del primo novembre” e destabilizzare il paese. In realtà, è più che evidente, i ‘destabilizzatori’ hanno colpito solo i nemici di Erdogan, e l’obiettivo degli attentatori sembra più quello di puntellare e “stabilizzare” il debole ma feroce governo dell’Akp – che ora si erge a unico potere in grado di combattere ‘i nemici della Turchia’ e di riportare l’ordine – più che quello di metterlo in difficoltà. In vista del voto di domenica Erdogan si sta giocando tutte le carte a disposizione, compresi la ‘strategia della tensione’ e il terrorismo di stato: guerra (vera) ai curdi e alle sinistre, guerra (simulata) ai jihadisti, guerra allo ‘stato parallelo’ accusato di complottare contro la Turchia, bavaglio alla stampa e voce grossa nei confronti degli Stati Uniti e dell’Unione Europea, rapporti tesi con la Russia dopo l’intervento militare di Mosca a sostegno del governo siriano che di fatto rende impossibile la progettata invasione del nord del paese confinante.
Di fronte a uno scenario simile, incredibilmente, i repubblicani socialdemocratici del Chp, invece di far fronte comune con le opposizioni democratiche e di sinistra, hanno dato la loro disponibilità a formare un governo di coalizione con l’Akp nel caso in cui non ottenga neanche stavolta la maggioranza assoluta dei seggi in parlamento. Ma che dalle urne esca una stabilità di facciata la sensazione è che la Turchia sia stata contagiata dal virus che ha già mandato in pezzi il Medio Oriente, e che la destabilizzazione diffusa a piene mani da Ankara – oltre che dalle potenze occidentali e dalle petromonarchie – in Siria, Libano e Iraq, rischi di abbattersi sulla società turca come uno tsunami.
Più di uno, ormai, parla di rischi di un serio rischio di guerra civile, tanto che domenica vinca Erdogan tanto che le urne puniscano di nuovo il ‘sultano’, come sembrano indicare tutti i sondaggi che danno il partito islamista tra il 41 e il 43%, ampiamente sotto la maggioranza assoluta.
A questo punto il presidente dovrebbe puntare ad un massiccio condizionamento del voto, ricorrendo a brogli su vasta scala e all’interdizione del voto in alcune delle aree a maggioranza curda dove le autorità militari hanno imposto lo stato d’eccezione.
Impedire al Partito Democratico dei Popoli – l’Hdp – di ottenere di nuovo quel 13% che ha permesso ai curdi e alle sinistre di irrompere in parlamento il 7 giugno farebbe automaticamente crescere la quota di deputati da assegnare agli islamisti e in misura minore alle altre formazioni, Chp ed Mhp. Questo dopo che decine di co-sindaci e dirigenti curdi sono stati arrestati e che le sedi dell’Hdp in un centinaio di località sono state prese d’assalto, incendiate e distrutte, nel tentativo di espellere il partito dalla campagna elettorale. Obiettivo perseguito dal governo anche con il lancio di ripetute e massicce operazioni militari non solo contro i guerriglieri del Pkk, ma anche contro almeno una decina di città curde – Cizre, Sirnak, Lice, Hakkari ecc – prese d’assalto, assediate e bombardate dalle forze armate di Ankara con l’uccisione di decine di persone, manifestanti ma anche inermi passanti freddati dalle pallottole sparate dai tank o dai cecchini appostati sui tetti. 
Scatenare il caos, come ha fatto Erdogan, nel tentativo di farsi accettare come l’unico in grado di riportare l’ordine – anche se un ordine soffocante, totalitario – potrebbe non funzionare e travolgere gli stessi apprendisti stregoni della “destabilizzazione stabilizzante”. 

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