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L’odore del sangue sulle elezioni turche

L’odore del sangue e l’ossessione dei numeri offuscano le elezioni di domenica. Il sangue, frutto di stragi o di repressione, si vede in continuazione tanto il clima socio-politico turco è infiammato e rischia la degenerazione in un conflitto diffuso.
I numeri sono uno spettro, sia quando si macchiano di rosso con le 32 vittime degli ordigni di Suruç e le 102 di Ankara, oppure gli oltre cento militari colpiti a morte dalla riattivata guerriglia kurda e le centinaia e centinaia di civili kurdi fatti bersaglio da una controguerriglia che l’esercito turco rivolge agli abitanti dei villaggi del sudest.
Sia quando si presentano come cifre istituzionali, apparentemente innocue, perché per esse si scatena la bagarre elettorale d’un Erdoğan attore, anziché presidente imparziale. Il suo sogno di potere, diventato livore, si proietta sui 46 milioni di elettori degli 85 distretti, sui 550 seggi del Meclis, sui 367 che ne servono per cambiare la Costituzione d’emblée, o i 330 che porterebbero a un referendum popolare. E ancora i 327 scranni che l’Akp aveva nel 2011 quando, col 49,8%, veleggiava verso la maggioranza assoluta, scesi a 258 alle elezioni dello scorso giugno. Mentre gli 80 deputati del partito nazionalista e soprattutto gli 80 conquistati dal Partito democratico del popolo ne frustano l’ambizione di dominio e ridimensionano un progetto che un anno fa pareva già compiuto.
Più d’un istituto demoscopico mostra sondaggi che non sbloccano un quadro politico finito in surplace, almeno per chi vuole governare in solitudine; ciò che il presidente ha auspicato, per il “bene del Paese”, ancora ieri durante un intervento pubblico per la 92° celebrazione della Repubblica. L’Akp guadagnerebbe qualcosa, 2-3% anche a danno dei ‘disturbatori’ dell’Hdp, formazione accreditata comunque dell’11-12% e perciò in grado d’usufruire d’una nutrita pattuglia parlamentare. C’è chi prevede addirittura un’ennesima tornata elettorale perché le sabbie mobili dell’ingovernabilità proseguirebbero a paralizzare il quadro politico.
Il premier Davutoğlu vorrebbe escludere ricorsi all’urna straordinari, ma se l’ostracismo alle coalizioni dovesse perdurare l’ipotesi potrebbe materializzarsi. Con molte incognite su economia e stabilità, visto il caos crescente dentro e fuori il Paese. Certo l’identità che lega ancora un consistente numero di voti kemalisti ai partiti repubblicano e nazionalista è dura a morire. Già alle consultazioni di giugno il travaso elettorale ha preso la via inversa: in parecchi hanno abbandonato l’Akp, scegliendo Chp e Mhp, nonostante i tre anni nei quali Erdoğan, più di chiunque altro nel suo schieramento, si sia accanito nel lanciare quell’autoritarismo che tanto ricorda i golpe del passato e che tanto piace ai Lupi grigi.
Ordine e legalità autoritaria, con cui si vogliono tacitare le idee balzane dei giovani di Gezi Park, ogni velleità democratica della nuova opposizione targata Hdp (che però risulta aggregante e vincente), la libera stampa, quella vicina a gruppi di potere socio-culturale come la Cemaat gülenista divenuti acerrimi nemici, oltre a perseguire il terrorismo, con la particolarità di bollare come terrorista chiunque contesti tale programma. Per essere attrattivo verso i fanatici della disciplina il modello islamico ha cercato di sostituire lo scontro col laicismo, di cui è permeata la tradizione turca novecentesca, con un mix di secolarismo in salsa ottomana che pone comunque al centro l’identità nazionale turca. Però il laboratorio politico del sultano prevede temi che poco piacciono agli elettori storici repubblicani e nazionalisti, uno di questi è il presidenzialismo, già introdotto in maniera strisciante fuori dalla Costituzione con la tendenza a far prevalere il potere esecutivo su quello legislativo e giudiziario, come dimostrano i colpi di testa e di mano erdoğaniani. Divisiva anche la questione kurda sulla quale i kemalisti duri e puri non transigono, per loro la patria turca non prevede minoranze, chi è sopravvissuto a pogrom e stermini deve abbassare lo sguardo, omologarsi, obbedire in silenzio.
Invece sulla questione kurda nel 2005 Erdoğan aveva mostrato una delle mosse più realiste (assieme al liberismo economico mutuato da Özal) d’un iniziale riformismo dell’Akp. Çözüm Süreci, il processo di pace, è una condizione senza la quale la Turchia non può continuare a vivere. Perché se è vero che il Pkk non può controllare militarmente tutte province del sudest, nonostante la supremazia elettorale del partito filo kurdo (Bdp e ora Hdp che in alcune aree raccoglie fino all’89% di consensi), è altrettanto vero che in quelle terre l’esercito di Ankara non può avviare una guerra totale. Sebbene molti recenti massacri di civili abbiano riportato indietro la storia di oltre vent’anni. La complessa unicità della questione kurda, che si riflette sulla vita nazionale, sta vedendo articolazioni varie. Dagli sviluppi dell’autonomia confederale richiamati dalla mappa di Öcalan, alla linea pacifista di Demirtaş diventata pericolosissima per Erdoğan perché aggregante elettoralmente e ostativa al progetto presidenzialista. Resta il combattentismo attivo che si decide a Qandil, secondo la classica segretezza della lotta armata, i famosi colloqui nel supercarcere di Imrali servivano per bloccarla, poi tutto s’è fermato. Ma senza una soluzione del problema kurdo la Turchia finisce nel bivio fra paralisi e caos. E il buio del passato diventa incubo. 

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