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Medio Oriente, gli errori di Obama

“Nessun sistema di governo può o deve essere imposto da una nazione ad un’altra. Ma questo non riduce il mio impegno per avere governi che riflettano la volontà della gente. L’America non presume di sapere ciò che è meglio per tutti, ma ho la convinzione certa che tutti i popoli desiderino alcune cose: la possibilità di poter affermare le proprie opinioni e poter avere voce su come si è governati”.
Con queste parole il presidente americano Barack Obama si presentava ai paesi musulmani nel suo celebre discorso tenuto all’università del Cairo il 4 Giugno 2009. Il punto focale del discorso del presidente era legato al fatto di voler dare un netto segno di discontinuità negli affari mediorientale da parte dell’amministrazione americana in confronto al suo predecessore George Bush.

A 6 anni di distanza quelle parole appaiono vuote ed ad esse non hanno fatto seguito dei fatti concreti per motivarle o renderle concrete. Se da una parte il presidente americano si è reso conto dei numerosi e devastanti errori fatti dal suo predecessore, dall’altro ha perseguito una politica nella regione medio-orientale meno interventista e, alle volte, più subdola. Diversi sono stati gli errori di valutazione dell’amministrazione americana ed alcuni di essi hanno progressivamente incancrenito l’instabilità in alcune nazioni di quella zona. La politica attendista di Obama è stata più volte criticata dai suoi avversari politici interni come un chiaro segno di indecisione e incertezza. In questi anni gli USA non hanno partecipato, pur vedendole di buon occhio, agli sviluppi della primavera araba in Tunisia ed in Egitto ed è anche vero che il loro intervento in Libia, per la caduta di Gheddafi, è stato indotto e spinto dai paesi europei guidati dalla Francia e dalla Gran Bretagna. Tuttavia l’amministrazione americana ha evidenziato  dei grossi limiti di valutazione ed è stata, troppo spesso, mal consigliata dai suoi alleati nell’area: Turchia, Paesi del Golfo e Arabia Saudita.

Da una parte, infatti, abbiamo un ”immobilismo” legato agli errori in Iraq ed in Afghanistan che sono sì un retaggio del passato ed un lascito di Bush, ma per i quali gli USA sono e continuano ad essere  la principale causa. La distruzione dell’apparato burocratico, statale e di sicurezza, la divisione del paese in base alla confessione o etnia di appartenenza hanno, inevitabilmente, favorito l’avanzata ed il sopravvento di Daesh in Iraq e dei Talebani in Afghanistan. La volontà di lasciare lo status quo delle cose è altrettanto visibile in Palestina dove il processo di pace, se si può ancora definire così, si potrebbe considerare su un binario morto ormai da 20 anni oppure dove l’amministrazione americana non ha mai rimproverato le diverse operazioni militari israeliane su Gaza con decine di migliaia di morti tra i civili inermi.

Dall’altra parte, invece, abbiamo visto che quando si è mossa la diplomazia americana ha causato altri nuovi danni collaterali. Il pieno sostegno alla primavera siriana ed alla caduta di Bashar al Assad, con l’appoggio economico e la fornitura di armi, hanno portato al foraggiamento prima dell’ESL, formato da ufficiali dell’esercito siriano, ma poi, con la sua disgregazione, di quella galassia jihadista rappresentata prima da Al Nusra e poi da Daesh. Pur di non favorire il regime siriano, l’amministrazione Obama ha preferito non assumere una forte posizione politica e militare nei confronti di Daesh, che si è espansa fino alla creazione del “Califfato” a ridosso tra Siria e Iraq. Solo in un secondo momento, dopo le stragi di yazidi, cristiani e sciiti, gli USA sono intervenuti militarmente con una coalizione dei paesi del Golfo ed hanno fornito armi ai guerriglieri curdi, unica forza di opposizione alle brutalità dello Stato Islamico.

Diversi sono stati gli ulteriori errori di valutazione da parte dell’amministrazione Obama come, ad esempio: il sostegno politico nei confronti dei bombardamenti turchi sia sullo Stato Islamico, ma soprattutto, sulle postazioni del PKK curdo, l’avallo delle missioni aeree saudite che, quotidianamente, colpiscono i civili in Yemen per contrastare i ribelli sciiti  Houthi o, infine, il finanziamento e la formazione di gruppi di ribelli che non hanno alcun sostegno popolare o radicamento nel territorio siriano. Tutto ciò ha causato una notevole perdita di influenza nella zona mediorientale a favore della Russia di Putin che, ad oggi,  si pone come la sola potenza in grado di poter cambiare l’andamento della guerra “globale” nei confronti di Daesh. Proprio in un’ottica di recupero della propria sfera di autorevolezza nell’area bisogna leggere due cambiamenti nella politica americana. La prima è l’accettazione della figura di Bashar Al Assad nei negoziati di pace, apertura dichiarata più volte dal segretario di stato John  Kerry in quest’ultimo periodo, ed una condivisione con l’alleato/nemico russo sugli obiettivi militari nella lotta allo Stato Islamico. La seconda, forse ancora più importante, è la firma del trattato di non proliferazione nucleare di Vienna con l’Iran che diventa un interlocutore diretto con l’amministrazione americana. Anche se  molto in ritardo sembra che Obama abbia capito quali sono gli equilibri di forza in quella regione.

Stefano Mauro

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