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Siria, frizioni tra sauditi e Qatar/Turchia. Putin: “chi ci minaccia sarà distrutto”

Il tono delle dichiarazioni tra i leader delle varie potenze coinvolte ormai direttamente nello scenario siriano – dopo anni di ‘guerra per procura’, destabilizzazioni, provocazioni – si alza sempre di più. Segno che la posta in gioco si fa sempre più importante.
Protagonista della scena è stato ancora, nelle ultime ore, il leader russo Vladimir Putin che ha deciso di mostrare nuovamente i muscoli.

«Qualsiasi bersaglio che minacci il nostro gruppo o le nostre infrastrutture di terra deve essere immediatamente distrutto» ha tuonato Putin parlando ai rappresentanti del ministero della Difesa sulla scia dell’abbattimento di un caccia russo da parte dell’aviazione turca in territorio siriano alcune settimane fa. Il leader del Cremlino, assicurando che le azioni della Russia in Siria non sono dettate da «aspirazioni geopolitiche» di tipo egemonico ma mirerebbero ad assicurare la «sicurezza della Russia» dagli attacchi degli estremisti, ha al tempo stesso minacciato e blandito i settori della cosiddetta ‘opposizione moderata’ siriana. Secondo Putin infatti i russi “sostengono il Free Syrian Army in collaborazione con l’esercito di Assad e contro i terroristi”, una formulazione che indica che Mosca è disponibile ad accettare una presenza futura di alcuni gruppi filoccidentali e islamisti, legati alle potenze regionali e occidentali, all’interno di un futuro assetto della Siria, ma a condizione che rinuncino alla guerra contro il governo di Damasco.
Quando Putin ha poi raccomandato di prestare «un’attenzione particolare» «al rafforzamento del potenziale bellico delle forze strategiche nucleari» e dotare «tutti i componenti della nostra forza nucleare» – marina, aviazione ed esercito – di «nuovi armamenti» evidentemente non si riferiva ai ribelli siriani o alle formazioni jihadiste ma intendeva mandare un chiaro ed esplicito messaggio alle potenze rivali di Mosca. Contemporaneamente le agenzie battevano l’annuncio del ministro della Difesa Sergej Shoighu, secondo il quale il 95% circa dei sistemi di lancio delle armi nucleari russe è pronto al combattimento. «Le forze armate – ha aggiunto – hanno ricevuto quest’anno 35 nuovi missili balistici nucleari».
Le minacce più immediate sono state indirizzate innanzitutto alla Turchia quando Putin ha informato che dopo l’abbattimento del Sukhoi nei cieli siriani sono state rafforzate le misure di sicurezza delle basi russe in Siria e dei militari che vi operano anche grazie all’installazione di nuove batterie di missili.
Ieri anche il ministro degli Esteri di Mosca Sergej Lavrov si è incaricato di ribadire la posizione della Russia su quanto sta avvenendo in Medio Oriente, sfruttando il protagonismo militare di Mosca e le sempre più forti difficoltà degli Stati Uniti nella regione. E anche in questo caso il dito è stato puntato direttamente contro Ankara e la copertura assicurata dal regime turco alle organizzazioni jihadiste.
Per la Russia è evidente “un crescente bisogno di chiudere la frontiera turco-siriana come urgente misura” ha dichiarato il ministro degli Esteri russo nel suo intervento alla conferenza per il Dialogo Mediterraneo, a Roma. Il capo della diplomazia russa ha lanciato una nuova, dura critica alla Turchia, sostenendo che “se vogliamo combattere l’Isis in modo efficiente, dobbiamo abbandonare i doppi giochi e qualsiasi tipo di sostegno agli estremisti, per non parlare di terroristi, come accaduto il 24 novembre, quando è stato abbattuto un cacciabombardiere russo impiegato in una operazione antiterrorismo”. Sostenere che il presidente siriano Bashar Al Assad rappresenta un ostacolo alla lotta all’Isis è “irresponsabile” ha poi spiegato l’esponente del governo di Mosca: “Assad è il comandante in capo. Dicono che la maggioranza sunnita in Siria lo odia. Se è così, facciamo delle elezioni anticipate, battiamolo alle elezioni se si presenta. Ma dire che se ne deve andare perché alcuni paesi non combatteranno l’Isis come dovrebbero è irresponsabile”. Lavrov ha poi insistito sul fatto che per continuare “le trattative con Damasco e l’opposizione siriana” e proseguire efficacemente i negoziati di Vienna è centrale “stilare la lista di organizzazioni terroristiche” inserendovi non solo Daesh ma anche Al Nusra e alcune delle organizzazioni jihadiste che prendono ordini della petromonarchie del Golfo o dalla Turchia.
Le stesse che in questi giorni si sono riunite a Riad in occasione di una conferenza delle ‘opposizioni siriane’ ospitata dal regime wahabita in un lussuoso hotel della capitale saudita. Una conferenza che nonostante le esclusioni della vigilia nei confronti dei gruppi non graditi non è riuscita ad evitare una spaccatura, poi almeno formalmente rientrata, sull’avvio di trattative dirette con il governo siriano. Ieri le frizioni tra i diversi gruppi hanno portato al plateale ritiro dalla conferenza del gruppo islamista salafita denominato Ahrar al-Sham (o Fronte Islamico Siriano, fazione alleata con la branca siriana di al Qaeda, al Nusra, quest’ultima non invitata a Riad, almeno ufficialmente), organizzazione che controlla attualmente un terzo del territorio siriano. A provocare la spaccatura sarebbe stata la richiesta di alcuni gruppi di considerare la trattativa con il governo di Damasco obbligata, visti i continui successi sul campo – in particolare ad Homs e ad Aleppo – delle forze lealiste sostenute dai massicci bombardamenti russi e dalle milizie sciite iraniane e libanesi.
“Non è stata sottolineata a sufficienza l’identità musulmana del nostro popolo” e “non è stato dato il reale peso politico alle fazioni rivoluzionarie e jihadiste, ma a personaggi più vicini al regime che al popolo” ha tuonato un rappresentante del Fronte Islamico, finanziato e sostenuto in particolare dal Qatar e dalla Turchia e appoggiato a fasi alterne dai sauditi, spiegando la decisione di ritirarsi dalla conferenza. Decisione poi rientrata, visto che alla fine l’assise ha deciso di dire ‘si’ al negoziato diretto con il governo di Damasco, ma anche che il presidente Assad dovrà lasciare il potere “all’inizio della fase di transizione”. Di fatto a dettare agenda ed esito della conferenza è stato il padrone di casa, il re Salman bin Abdulaziz, il quale all’apertura del meeting, a nome di Kuwait, Qatar (alleato a volte recalcitrante), Emirati e Bahrein, aveva espresso “sostegno a una soluzione politica che garantisca l’integrità territoriale della Siria”. Una svolta solo apparente che però ha infastidito il Qatar e la Turchia, determinando un ulteriore ingarbugliamento del fronte delle opposizioni islamiste e sunnite, che esprimono un timido assenso all’avvio di trattative dirette con Assad ma dicono no alla partecipazione delle forze che sostengono l’attuale governo al futuro della Siria. Una posizione riassunta dal ministro degli Esteri saudita, Adel al-Jubeir, secondo il quale Assad ha a disposizione solo due opzioni: andarsene attraverso il negoziato o essere rimosso con la forza.
Una posizione che non può certo favorire un esito positivo delle trattative in corso a Vienna tra gli attori diretti della guerra civile e le potenze grandi e piccole coinvolte.
La conferenza ha anche deciso che al negoziato il fronte delle opposizioni sia rappresentato da 25 delegati espressione dei diversi gruppi, compresi quelli basati all’estero. «Ci sono rappresentanti di tutte le fazioni, politiche e militari – ha commentato Monzer Akbik, membro della Coalizione Nazionale Siriana – Dovremo raggiungere un cessate il fuoco e questo richiede che le fazioni armate ne siano parte». A proposito del futuro del paese un comunicato parla di un «Un meccanismo democratico attraverso un regime pluralistico che rappresenti tutti i settori del popolo siriano» che includa le donne, non discrimini su basi religiose o etniche e preservi le istituzioni statali. Ma la Coalizione Nazionale Siriana e le altre componenti più o meno laiche conta davvero poco sul campo e le organizzazioni salafite e jihadiste maggioritarie dal punto di vista militare e politico hanno ben altri obiettivi che non il pluralismo etnico, culturale e religioso ed anzi pensano all’imposizione della sharia e di una dittatura sunnita.
Comunque entro i primi dieci giorni di gennaio l’opposizione siriana dovrebbe incontrare i rappresentanti del governo siriano per avviare i colloqui di pace, ha informato Abdulaziz bin Sagr, direttore del Centro Studi del Golfo, che ha presieduto la conferenza di Riad.
Gli Stati Uniti, sempre più esterni e impotenti rispetto alle decisioni assunte dalle potenze regionali che si combattono nello scenario siriano ed iracheno, si sono comunque detti soddisfatti del risultato della conferenza che dovrebbe – il condizionale è d’obbligo – portare all’avvio di negoziati diretti tra i gruppi della ribellione armata e il governo siriano. Il segretario di Stato Usa John Jerry da Parigi ha parlato di una riunione “molto costruttiva” ed ha annunciato la possibilità di un incontro tra i paesi coinvolti nel processo di Vienna il prossimo 18 dicembre a New York.
Se l’Arabia Saudita, almeno formalmente, sembra aderire allo spirito di collaborazione auspicato da Washington, il regime turco non sembra disponibile a fare altrettanto, e continua a tessere la sua trama nella regione. Ieri il presidente della regione autonoma curda dell’Iraq (ormai un vero e proprio stato semi-indipendente) Massud Barzani ha incontrato ad Ankara i responsabili politici turchi proprio mentre tra Ankara e Baghdad infuria la polemica dopo l’invio di alcune centinaia di militari e di alcuni reparti blindati turchi a Bachiqa, nell’Iraq settentrionale, a pochi chilometri dalla città di Mosul. Il governo di Bagdad ha intimato alla Turchia di ritirare immediatamente le sue truppe, i carri armati e l’artiglieria, ma Ankara ha solo accettato di bloccare l’invio di nuove truppe. Al termine degli incontri, che hanno visto anche un colloquio di un’ora e mezza tra Barzani e il premier turco Ahmet Davutoglu, non è stata rilasciata alcuna dichiarazione ufficiale congiunta ma è ovvio che Ankara conta sui curdi iracheni per contrastare la guerriglia curda del Pkk e del Pyd e per condizionare il governo iracheno, sostenuto dall’Iran e alleato della Russia. In una dichiarazione al vetriolo, infatti, il regime turco ha consigliato “calma” alla Russia. “Chiediamo alla Russia, che è tra i nostri maggiori partner commerciali, di ritrovare la calma, ma diciamo anche che la nostra pazienza ha dei limiti” ha dichiarato il ministro degli Esteri turco Mevlut Cavusoglu. 

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