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Il Sultano raddoppia: 6 miliardi per contenere l’esodo

Princìpi e valori sbandierati come assoluti, egoismi nazionali esaltati dalla crisi, e un prezzo da pagare che a sopresa cresce del 100%. L’Unione Europea è una bestia senza legami che vadano al di là di trattati economici, e dunque – di fronte ad ogni problema che sfugga alla semplice contabilità di bilancio – si spappola come una torta “sbrisolona”, all’apparenza robusta ma pronta a trasfromarsi in una nuvola di molliche.

Il vertice tra i 28 e la Turchia del dittatore Erdogan ha squadernato tutti contrasti di interesse, convincendo il rappresentante di Ankara, Ahmet Davutoglu, che si poteva massimizzare il guadagno: 6 miliardi invece dei 3 inizialmente promessi dalla Ue perché la Turchia “trattenga”, in qualsiasi modo ritenga opportuno, il flusso costante dei migranti in fuga dal Siraq.

Purché quei disperati inseguiti dalle bombe e dai tagliagole non sbarchino nelle belle strade di Vienna, Parigi e Berlino la “civilissima Europa”, il tempio della “libertà d’opinione”, è stata pronta ad evitare qualsiasi critica riguardo alla chiusura del principale quotidiano d’opposizione – occupato dalla polizia – oltre che, come sempre, sul genocidio dei curdi che pure combattono, sia in Siria che in Iraq, contro quello che ufficialmente è il “nemico assoluto”, l’Isis.

Uno scambio infame, che stimola il ricatto. Sia quando Ankara decide di lasciar partire più gommoni verso le isole greche, sia quando – al tavolo dei vertici – c’è da tirare sul prezzo. E se a un assassino si lascia il coltello in mano, quello prima o poi affonda la lama.

Il “grande vertice” si è chiuso con un nulla di fatto, ma si è cercato in ogni modo di mascherarlo. Nessuna decisione operativa, ma una “intesa di principio”, con l’appuntamento decisivo – in teoria – spostato al prossimo vertice, convocato per il 17 e 18 marzo.

Ma non c’è una sola riga scritta nero su bianco, nessun impegno da parte di nessuno. Facile prevedere che i giorni da qui al 17 registreranno un incremento fenomenale del flusso verso la Grecia, trasformata ormai in discarica dei problemi finanziari europei e delle masse di migranti che nessuno vuole. Quei 6 miliardi sono il riscatto da ottenere, la marea dei corpi sul mare l’arma di pressione.

Non è stato uno spettacolo per cuori teneri neanche sotto il profilo diplomatico. Il presidente del Consiglio Europea, il polacco Donald Tusk (esemplare rappresentante di un paese indisponibile ad accogliere anche un solo profugo ma che ha la pretesa di condizionare la politica del continente in proposito) si è sentito “scavalcato” dal minivertice notturno tra la cancelliera tedesca Angela Merkel ed il premier olandese Mark Rutte con il pari grado turco. Una soluzione sponsorizzata anche da Jean-Claude Juncker (residente della Commissione, dunque del “governo” europeo), pur di evitare una chiusura senza neanche l’impegno a rivedersi.

La Turchia si era presentata infatti con una proposta imprevista: un sistema di reinsediamenti secondo uno scambio di ‘uno a uno’, tra i migranti “economici” rifiutati dall’Europa e quelli che dovrebbero invece essere in qualche modo accolti (i profughi di guerra veri e propri, definizione peraltro problematica visto che – alla frontiera macedone – vengono respinti quanto provengono da Baghdad o Damasco, classificate come “città sicure”).

Un meccanismo complicato anche dal fatto che la Turchia non sarebbe comunque disposta a riprendere tutti i migranti che hanno raggiunto l’Unione Europea, ma solo quelli da una certa data in poi (con ovvii problemi di “certificazione”, visto che si tratta di ingressi “illegali”, dunque non registrati).

Dall’altro lato dell’immenso tavolo, un nucleo duro di paesi dellEst e Baltici che non intendono accettare nessun profugo, indipendentemente dalle “cause”, in aperto cntrasto con la carte dell’Onu. Il peggiore è stato ancora una il premier ungherese Viktor Orban, che ha posto il veto sul meccanismo di reinsediamenti dalla Turchia. Per il resto, marcia libera individuale, con ogni leader a proporre una ricetta diversa a seconda di quanto la ritenga “potabile” presso la propria opinione pubblica.

In questo contesto la Turchia ha avuto gioco facile ad alzare il prezzo: tre miliardi aggiuntivi (oltre ai tre già previsti) per il 2018, che l’Europa dovrebbe stanziare secondo la logica dei “progetti per migliorare le condizioni di vita dei profughi”. Ma il controllo delle condizioni resterebbe comunque in mano turca. Prendere o lasciare. In più, l’apertura di cinque capitoli per il processo di adesione di Ankara all’Unione Europea (nel silenzio generale sulle condizioni delle libertà politiche in Turchia), la liberalizzazione dei visti già a giugno, anziché ottobre, e “aree umanitarie sicure” in Siria (ovvero sotto il controllo militare turco).

Il gioco è quasi scoperto. Ankara vuole occupare parte della Siria (il Kurdistan e qualche area petrolifera) con il consenso e con i soldi dell’Unioen Europea. Altrimenti apre le dighe che trattengono i due milioni di profughi attualmente in territorio turco, prodotti dalle guerre decise dall’Occidente nel corso degli ultimi 15 anni. Con quali risultati, lo avete sotto gli occhi.

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La nota di ALberto Negri, su IlSole24Ore:

Il giorno della memoria di Schengen

In una piccola isola come Lampedusa hanno accolto migliaia di profughi: 300mila negli ultimi 20 anni. A Idomeni, dopo settimane, non si riesce a dare da mangiare, bere e dormire a 12mila sulla terraferma, a Calais i migranti sono stati spostati a 180 chilometri da Bruxelles in un campo improvvisato da Medici senza Frontiere contro il volere delle autorità locali. Altrimenti erano ancora lì, al freddo. 

C’è qualche cosa che non va: i migranti ormai vengono utilizzati come un’arma, uno strumento di pressione e un mezzo di scambio, dalla Turchia alla Grecia, agli stati membri dell’Unione, dell’Est e dell’Ovest, come dimostra questo ultimo vertice europeo. Se fossero stati gli sfollati di un terremoto avrebbero già trovato da tempo tende e assistenza: sono stati invece gettati allo stato brado sotto l’obiettivo delle tv per creare la psicosi dell’emergenza e sollevare reazioni epidermiche e superficiali nell’opinione pubblica europea. 

Tutto viene presentato come un esodo di dimensioni bibliche: a Jalozai, vicino a Peshawar, gli afghani erano ospitati in un campo profughi di 200mila persone, ai confini tra Kenya e Somalia ne sono stati sistemati 400mila, durante la guerra del Kosovo nel’99 furono espulsi 800mila albanesi in pochi giorni, eppure, dopo una prima fase di sbandamento a Blace, in Macedonia, vennero messi sotto le tende. 

La politica delle emozioni ha ormai sostituito non solo le ideologie, sepolte da un pezzo, ma anche la più banale razionalità e il buonsenso. Si fanno accordi, disaccordi e vertici europei lasciando che degli esseri umani vengano torturati a cielo aperto e in diretta tv. Schengen, il nome di un accordo per la libera circolazione delle persone, forse tra alcuni anni diventerà quello di una vergogna da ricordare.

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