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Operazioni di salvataggio in corso. L’Europa alla deriva

Non ci lasceranno affogare. Le prime scialuppe di soccorso stanno già arrivando dal porto più vicino. I giubbotti salvagente e la gente esperta di mare. Ci salveranno tutti, incominciando dalle donne e dai bambini. Il naufragio era nell’aria da tanto tempo. I primi ad annunciarlo furono, come sempre, i poeti e i pazzi prima di essere sedati dalle medicine. Qualche timido profeta l’aveva pronosticato senza convinzione. Il continente, da anni ormai, stava andando alla deriva senza che i passeggeri se ne accorgessero. Eppure i segni premonitori del disastro non erano mancati.

Un’improvisa amnesia aveva colpito la maggior parte dei popoli che componevano quel mondo fiero della sua storia. Nulla di peggiore della dimenticanza del passato per capire il futuro. L’amnesia si era poi combinata con la censura della sofferenza. Era stato fatto credere per decenni che la paura era l’unico nemico da combattere con tutti i mezzi. Per conseguenza le cattedrali furono trasformate in musei d’arte contemporanea e i cimiteri monumentali in centri commerciali. La graduale scomparsa dei bambini liberi di giocare sulle strade fu vista come un successo della politica della sicurezza dell’epoca. Alla fine dei matrimoni invece di riso si buttavano coriandoli.

Ci sbarcheranno e ci accoglieranno festosi nel porto della città adibita a festa. Tutti insieme, senza controlli di frontiera e documenti sanitari da esibire. Solo uno spazio riservato, in modo provvisorio, per le coppie senza figli in attesa di arrivo. I primi cantieri edili stavano assumendo manovali e muratori specializzati in giardinaggio. Gli europei avevano la tendenza ad isolarsi secondo la lingua, la religione e l’origine del paese. Non era facile per noi imparare la lingua del posto e comunicare con la gente che aveva usi e costumi differenti dai nostri. Dopo tanti anni tornare a sentirsi stranieri non era facile per nessuno.

Ci fecero accomodare come meglio potevano in salotto e, presa una foto di famiglia, condivisero ciò che la signora aveva preparato per cena. Alcuni di noi si sentivano a disagio perché ciò che un tempo si chiamava ospitalità, era stata bannita come pericolosa e fuori moda. Prima di mangiare ci invitarono a fare la preghiera con loro perché, ricordavano, ringraziare per il cibo è quanto di più normale ci sia. E anche questo, lentamente, ci tornava alla mente, come qualcosa di perso e ritrovato senza meritarlo. Si faceva sera e le prime luci della città davano forma al tempo che rimaneva peril mattino. Il primo giorno finiva così.

Le città facevano a gara per averci come concittadini. Si sentivano onorati dalla provvidenza che aveva loro affidato, seppur in condizioni drammatiche, così tanti stranieri da accudire. Le madri chiamavano i loro figli e li invitavano a salutarci con cordialità malgrado il colore differente li rendesse timorosi. Alcuni volenterosi cominciarono ad organizzare un torneo improvvisato con magliette prese in prestito dalle squadre di calcio che finora avevano solo visto in televisione. Era un piacere vederle giocare da vicino e toccare con mano i campioni che, fino ad allora, conoscevano con le figurine da scambiare.

Il giorno dopo era domenica e c’è chi proponeva un’escursione fuori delle mura incustodite della città. Ci accompagnarono dunque a conoscere i loro campi e i loro giardini. Alcuni profittarono per raccogliere fiori e farne ghirlande e mazzi da regalare a quanti, per pigrizia, erano rimasti in città. L’avrebbero rimpianto a lungo perché quasi subito cominciarono le danze accompagnate da canti e promesse, forse affrettate, di matrimonio. L’acqua per tutti usciva da una roccia e rimaneva fresca a lungo nelle mani e sulle labbra. Non si come ma anche il pane, impastato con olive, passava di mano in mano e alla fine del pranzo ne avanzarono alcune ceste.

Niamey, luglio 2018

 

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