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Messico. Un crimine di Stato

Nell’estate del 1968, poco prima dell’inizio dei Giochi Olimpici, gli studenti paralizzano, con scioperi ed occupazioni, la capitale messicana. Il governo mobilita l’esercito, che spara. Alla fine degli anni 60, oltre 50 anni dopo la rivoluzione del 1910 contro la dittatura di Porfirio Diaz ed altrettanti di dominio del cosiddetto «Partido Revolucionario Istitucional» (PRI), il «miracolo messicano», una notevole crescita economica e un’apparente stabilità sociale alimentano l’ottimismo. Il Comitato Olimpico Internazionale sceglie Città del Messico per i Giochi del 1968. Un’occasione per il governo di presentare al mondo un paese prospero e moderno. Qualche anno prima, Diego Rivera ha dipinto sulla facciata dello Stadio olimpico un murale con i quattro pilastri della “rivoluzione istituzionale”: “L’università, la famiglia messicana, la pace e la gioventù sportiva”.

Proprio questi quattro pilastri preoccupano il presidente Gustavo Diaz Ordaz nell’estate del 1968. All’università, dominata dalla sinistra, la famiglia messicana non è in grado di imporre la sua morale. Il movimento studentesco mette in pericolo la pace. La gioventù è in fermento e non ha alcun interesse per i Giochi. Il 22 luglio 1968 la polizia invade  l’università e si accanisce sugli studenti, che reagiscono. Il 26 luglio viene negato agli studenti l’accesso alla piazza centrale di Città del Messico, lo Zocalo. Segue una dura repressione e 94 arresti. Il 27 la ribellione dilaga. Il governo impiega l’esercito. Altre 68 persone vengono arrestate. Il 1° agosto è il rettore dell’Università nazionale a protestare contro la violenza. Gli studenti si mobilitano. Altre 20 università raggiungono il movimento. Il 4 agosto è costituito un Comitato di sciopero nazionale di studenti e liceali. Il Messico appare come una pentola in ebollizione, pronta ad esplodere. Le università, come nel 1956, nel 1960, nel 1966 e nel 1967,  sono al centro della rivolta. Gli studenti criticano il PRI, un’organizzazione di massa interclassista, pilastro del regime. L’opposizione è irrilevante.

Il presidente, eletto ogni sei anni,  è alla testa del sistema. Le elezioni democratiche sono una finzione. Il vincitore è scelto dal suo predecessore. Il Messico non è una dittatura dichiarata, ma un regime autoritario dove esistono esigui margini di trattative. Quando queste ultime falliscono, il governo ricorre alla repressione. La libertà di stampa, di riunione e di opinione è limitata. I portavoce delle proteste finiscono in carcere, come in occasione degli scioperi dei ferrovieri (1958/59), degli insegnanti (1960), dei medici (1965).

In Messico, il sistema politico, che si definisce stabile, fa acqua da tutte le parti. In questa situazione, le rivendicazioni del movimento studentesco nel 1968, dalla liberazione dei prigionieri politici allo scioglimento delle unità speciali della polizia, dall’indennizzo dei parenti di morti e feriti alle indagini per stabilire le responsabilità dei funzionari nella repressione, mettono in discussione il regime. Le rivendicazioni del Comitato di sciopero degli studenti dimostrano la loro volontà di conquistare uno Stato di diritto.

Fra agosto e dicembre 1968 il movimento studentesco si struttura in brigate di propaganda, organizza collette, manifestazioni e comizi. Si tratta di un fronte ampio. I militanti più sperimentati provengono da piccole formazioni di sinistra: marxisti-leninisti, trotskysti, maoisti, cattolici di sinistra. La maggioranza è costituita da giovani senza esperienza politica per i quali il 1968 rappresenta un inizio, un’opportunità per scrollarsi di dosso la morale familiare e la repressione poliziesca. Si tratta per lo più di studenti, dato che le studentesse sono ancora poche. Il governo accusa i comunisti.

Il partito, fondato nel 1919, è un’organizzazione semiclandestina che non ha alcun ruolo nel movimento studentesco, sebbene alcuni militanti provengano dalle sue organizzazioni giovanili. In agosto e settembre, a qualche settimana dall’apertura dei Giochi, si svolgono tre manifestazioni, alle quali partecipano fra 50.000 e 150.000 persone. Il presidente è allarmato. Conservatore, autoritario e ossessionato dall’ordine, è convinto che i comunisti vogliano sabotare i Giochi e rovinare la reputazione del Messico. E mette in guardia gli studenti: “Siamo stati così tolleranti da essere criticati per questo, ma tutto ha un limite”, dichiara in parlamento il 1° settembre.

Dall’inizio delle proteste, l’esercito pattuglia le strade con i carri armati. Il 18 settembre occupa l’UNAM, Università Nazionale Autonoma del Messico.  Il 23 dello stesso mese occupa il Politecnico. Gli studenti si difendono. Ci sono tre morti, dozzine di feriti e numerosi arresti. Poliziotti in civile sparano sugli scioperanti. Il 2 ottobre si svolge una manifestazione sulla Piazza delle Tre Culture, 3 km dallo Zocalo. Alle 17.30, migliaia di persone partecipano a un comizio. I primi colpi vengono sparati mezz’ora dopo. La gente cerca scampo nella fuga ma i soldati sbarrano la strada. E fanno fuoco. Alla fine, un numero imprecisato di morti e feriti resta a terra.

Ci sono voluti 30 anni per sapere qualcosa del massacro del 2 ottobre. Quel giorno è programmata  l’ “Operazione Galeana”, con l’obiettivo di arrestare i dirigenti del Comitato di sciopero e di punire gli studenti. Partecipano all’operazione diversi battaglioni, unità della polizia e elementi della guardia presidenziale che sono appostati sui tetti intorno alla piazza e sparano sui dimostranti. Gli studenti sono inermi. I Giochi, iniziati dieci giorni dopo il massacro, si svolgono senza altre proteste. La repressione è durissima. Le carceri si riempiono di studenti ribelli. La polizia politica dichiara che i morti sono 26, 100 i feriti e oltre 1.000 gli arrestati. Oltre 200 studenti restano in carcere più di due anni, accusati di crimini di cui sono le vittime, senza essere giudicati. Solo nel 1977 Gustavo Diaz Ordaz dichiara in una conferenza stampa che 30-40 persone sono morte e che fra loro ci sono « soldati, sovversivi e curiosi ». Dal 1993 sulla Piazza delle Tre Culture c’è un monumento alle vittime del massacro di Tlatelolco. Ci sono 20 nomi. Canzoni, libri, film raccontano di centinaia e perfino di migliaia di morti. Non ci sono prove. Non importa. Il massacro è un crimine di Stato, indipendentemente dal numero di morti.

Oggi l’avvenimento è considerato una svolta sulla strada della democrazia. Trent’anni dopo, il PRI perde la maggioranza assoluta in parlamento. Viene finalmente insediata una commissione. Nel 2000, il PRI viene sconfitto alle elezioni. Nel 2002 il nuovo governo, di destra,  istruisce un procedimento per punire i responsabili ancora in vita. Gli archivi diventano accessibili. Nessuno verrà condannato. Dal 2011, il 2 ottobre è giorno di lutto nazionale. Ogni anno si svolge una manifestazione « per non dimenticare ». Nel settembre 2014 la polizia arresta 43 studenti della Facoltà di Pedagogia di Ayotzinapa che hanno rubato un autobus per partecipare alla manifestazione del 2 ottobre. Sono scomparsi. Lo Stato autoritario continua ad esistere, anche se il sistema politico è cambiato. Il 1° luglio 2018 una coalizione pragmatica guidata dal Morena (Movimiento Regeneracion Nacional), di sinistra, ha vinto le elezioni. Vedremo se chiarirà le circostanze dei crimini di Tlatelolco e Ayotzinapa.

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