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Germania. Un profugo curdo bruciato e dimenticato, in carcere

Un profugo curdo-siriano messo in carcere da innocente, muore nellincendio della cella in una galera della Renania-Settentrionale Vestfalia. Nellanno 2018 in Germania non è un argomento che muove gli animi.

Che c’è a Kleve? Non succede granché nella piccola città al confine tra Germania e Olanda. Da una ricerca Google-News risulta: una donna di Kleve per avidità avrebbe avvelenato un 93enne; la “Kulturwelle” [onda culturale] nella locale piscina coperta offre “il programma completo”; e i vigili del fuoco di Kleve avranno presto un’onorificenza per aver liberato da una palude dei cavalli scappati.

C’è altro? Ah già, certo. Il 17 settembre 2018 nella cella 143 del carcere giudiziario di Kleve è divampato un incendio. Il siriano 26enne Ahmad A. è morto per le conseguenze del rogo. Fino ad oggi il caso è non è risolto. E chi indaga, trova cose incredibili. Ahmad A. era stato rinchiuso per le azioni di un altro, più volte classificato alternativamente come “a rischio suicidio “ o “privo di tendenze suicide”, senza aver mai visto un interprete o avuto assistenza legale durante i tre mesi che ha passato in carcere da innocente. Alla fine la cella brucia e sul fatto se A. durante l’incendio si sia fatto notare o meno, il Ministero della Giustizia mente all’opinione pubblica.

Inizialmente diedero la notizia numerosi media, sia locali sia nazionali. Ma l’interesse si assopisce e al più tardi quando il Ministro della Giustizia regionale Klaus Biesenbach (CDU) all’inizio del novembre 2018 presenta al Comitato per la Giustizia del Landtag [Parlamento del Land] un rapporto di 60 pagine nel quale è riassunto il grado delle cognizioni dell’epoca è calato il silenzio. E perché? Chi legge il rapporto con attenzione si troverà davanti a una cronologia della follia. E si vedrà costretto a porre domande che finora non vengono poste né dal governo del Land né dai prodotti giornalistici borghesi impegnati a dimostrare la propria “serietà”.

L”equivoco”

Il martirio di Ahmad A. inizia il 6 luglio 2018. Nei pressi di una cava di ghiaia. Viene arrestato a Geldern dalla polizia distrettuale, l’accusa: avrebbe “offeso su base sessuale” quattro donne. La polizia distrettuale di Kleve porta A. in guardina. Viene eseguito un accertamento dell’identità. I funzionari “scambiano” Ahmad A. con un uomo del Mali ricercato con mandato di cattura, il cui pseudonimo coincide con il nome – piuttosto comune – di Ahmad A.. Che il ricercato nel sistema di ricerche fosse registrato con nazionalità “maliana” e luogo di nascita “Timbuctù”, ma A. venisse da Aleppo, palesemente non dal Mali, non impedì la carcerazione. In base a un procedimento di foto-segnalamento, la polizia aveva in effetti a disposizione anche una foto del vero ricercato. Semplicemente non venne eseguito “alcun confronto dei dati depositati nel foto-segnalamento” scrive il Ministero della Giustizia.

Già qui si può chiedere: questo davvero è stato uno “scambio” incolpevole? Sembra piuttosto che ci si sia seriamente impegnati per “scambiare” A.. In ogni caso svolge un ruolo una buona dose di razzismo. Si può speculare: anche qualcuno che parla correntemente tedesco e ha l’aspetto di un tedesco biologico sarebbe stato “identificato” come cittadino maliano anche se nel sistema ci fosse stato un riscontro sul nome?

Lo stupro inventato

I funzionari però “scambiarono” Ahmad A. non solo con un uomo del Mali ricercato ad Amburgo. Contemporaneamente videro in A. anche il colpevole di uno stupro, ricercato con mandato di ricerca pubblico. Il 10 luglio i funzionari poi eseguirono un confronto fotografico con la “presunta vittima”, le mostrarono una foto di Ahmad A..

La donna a quel punto disse che non c’era stato uno stupro e di aver inventato il delitto. Nel rapporto del Ministero della Giustizia su A. qui si dice: “Il procedimento presso il presente ente, in seguito registrato con il numero di pratica 203 Js 375/18, contro il cittadino siriano per sospetto di stupro, è stato revocato per provata innocenza senza eseguire un interrogatorio.”

Qui sono aperte diverse domande: perché da un lato i funzionari della polizia distrettuale di Kleve qui hanno avviato un procedimento riferito ad Ahmad A., che però non riguardava il maliano di Amburgo per il quale sarebbe stato scambiato. Inoltre, anche dopo che era stato chiarito che almeno questa accusa era caduta, non è stata fatta una nuova verifica su chi in effetti era stato arrestato.

La tesi del suicidio

La sera del 6 luglio Ahmad A. viene trasferito nel carcere giudiziario di Geldern. Anche lì vengono annotati i dati del maliano effettivamente ricercato come pseudonimo di Ahmad A.. A Geldern inizia anche la sconcertante classificazione, continuamente corretta nel corso tempo, di Ahmad A. come psichicamente labile. Nella cartella clinica del prigioniero viene annotato: “Pericolo di suicidio. Comunità con detenuti affidabili. Il detenuto non deve restare solo. Rispettare misure di sicurezza!”

Il 9 luglio A. per la prima volta vede un medico condotto. Questo lo trova “vigile” e “orientato”, diagnostica “nessuna indicazione di disagio mentale nei contenuti e della forma”. Ma trova cicatrici che potrebbero derivare da precedenti lesioni auto-inflitte. Il medico condotto annota “disturbi della personalità, disturbi nell’adattamento per quanto accertabile nelle condizioni date”.

Né qui né in alcun momento delle settimane successive viene interpellato un interprete. A. parlava un po’ di tedesco. Ma assolutamente non abbastanza per esami medici o psichici. Prima del suo arresto, nell’anno 2016, A. era già stato due volte su base volontaria in un istituto psichiatrico – così ha riferito il suo avvocato agli inquirenti del Ministero della Giustizia. I medici lì, evidentemente meno abituati a liquidare in modo sbrigativo grandi numeri di persone rispetto ai medici del carcere, dopo un primo colloquio registrarono che “a causa di insufficiente conoscenza della lingua tedesca del cittadino siriano non è stato possibile referto psicopatologico certo”. In seguito a questo venne concordato un soggiorno prolungato nella clinica. Risultato dell’anno 2016: “Nell’ambito di un soggiorno di tre giorni si sarebbe svolto un ulteriore colloquio di tre giorni con l’aiuto di un interprete professionale nel quale non sarebbero state trovate indicazioni di pensieri suicidi o aggressivi nei confronti di terzi in base a una malattia psichica diagnosticabile con certezza in quel momento.”

Il 10 luglio Ahmad A. viene trasferito a Kleve. Lì proseguono le indagini – di nuovo senza interprete. Il medico condotto l’11 luglio annota: “compatibile con il regime carcerario: si; preoccupazione rispetto a sistemazione singola; rischio suicidio: si; annotazioni: osservazione 15 min.” Due giorni dopo, un collaboratore dei servizi sociali del carcere annota che A. negherebbe pensieri suicidi e che non sarebbero rilevabili. E tre settimane dopo, il 2 agosto 2018, ora anche da parte del medico condotto del carcere giudiziario di Kleve viene detto: “preoccupazioni rispetto a sistemazione singola? no; rischio suicidio? no”.

Ahmad A. nel frattempo aveva presentato una “domanda” per la revoca delle misure di sicurezza prese in base alla sua presunta tendenza suicida. Nel corso dell’esame di questa domanda parla anche con la psicologa del carcere. Questo colloquio è particolarmente significativo. Perché la psicologa il 3 settembre annota che A. avrebbe fatto “una quantità di affermazioni a stento comprensibili sulla sua persona”. Nelle parole della psicologa del carcere: “Avrebbe indicato il suo nome sempre correttamente come Ahmad Amad, sarebbe nato il 13 luglio 1992 – tutti i dati diversi sarebbero riconducibili a protocolli errati della polizia. Gli estremi della sentenza non gli sarebbero noti, la sentenza non riguarderebbe lui. Non gli sarebbe noto il nome Ahmady Guira, non sarebbe mai stato ad Amburgo – meno che mai nel periodo del reato indicato – in quel periodo non sarebbe stato nemmeno in Germania, ecc. ecc.”

Chi legge questo si stropiccia gli occhi. A. dice la verità – e nient’altro che la verità. Ma la disumanizzazione dei prigionieri, in particolare di quelli migranti, porta al fatto che la psicologa del carcere non è più in grado di percepirlo come un soggetto umano. Dati della polizia sono documenti ufficiali e devono avere una loro correttezza. Dichiarazioni di un detenuto siriano – “una quantità di affermazioni a stento comprensibili”. Tuttavia la psicologa del carcere ritiene che non siano presenti intenzioni suicide e approva la revoca delle misure di sicurezza.

Il governo del Land Renania-Settentrionale Vestfalia in ogni caso ritiene questo viavai una prova della sua tesi che A. avrebbe dato fuoco alla sua cella con l’intenzione di uccidersi. A prescindere dal fatto che perfino i medici del carcere, gli assistenti sociali e la psicologa arrivano a conclusioni diverse sulle presunte intenzioni suicide di A., tutte le loro valutazioni sono comunque sciocchezze. Da un lato perché non è stato interpellato alcun interprete. Dall’altro però perché i medici palesemente non hanno considerato il loro interlocutore un essere umano a pieno titolo – un presupposto necessario per qualsiasi valutazione psichica. Da cosa questo sia dipeso, dalla situazione del carcere, da razzismo consapevole o inconsapevole – si può solo speculare. Ma chi non prende abbastanza sul serio una persona al punto di non indagare seriamente su indizi del tutto evidenti di uno scambio di persona, non deve ritenersi capace di dare un giudizio su malattie psichiche della stessa persona.

Per il governo del Land in ogni caso il desiderio sembra essere padre del pensiero. Ahmad A. deve aver commesso suicidio perché non può essere ciò che non deve essere. O quanto meno non deve diventare pubblico. Da questo punto di vista la deduzione delle prove serve a suscitare almeno l’apparenza che A. abbia dato fuoco alla sua cella con intenzioni suicide. Per questo nel rapporto di indagine anche la famiglia di A., che lo nega con veemenza, non ha diritto di parola.

Lincendio

La sera del 17 settembre 2018 c’è un incendio nella cella di Ahmad A. Lo stato delle indagini all’inizio di novembre consente di ricostruire gli eventi in questo modo: un perito è arrivato al risultato – provvisorio – che l’incendio sarebbe iniziato solo pochi minuti dopo le 19.00. La durata dell’incendio sarebbe stata di circa 20 minuti, verso le 19:25 sarebbe stato spento. Alle 19:23 è arrivata una chiamata di emergenza ai vigili del fuoco di Kleve.

Intanto è dirompente: il Ministro della Giustizia Klaus Biesenbach inizialmente aveva sostenuto pubblicamente che il detenuto non aveva cercato di farsi notare e che non aveva attivato l’interfono. Questo si è rivelato falso. Alle 19:19:10 Ahmad A. attiva l’interfono, vuole quindi chiamare le guardie carcerarie. E: loro rispondono. Per nove secondi. Poi disattivano A.. Cosa sia successo non si può dire con certezza. Perché l’unica fonte degli inquirenti è l’interrogazione delle guardie carcerarie stesse “nell’ambito della consultazione collegiale” sul “evento particolare del 17 settembre 2018”.

La versione ufficiale è: A. avrebbe chiamato, ci sarebbe stata anche risposta, ma semplicemente non avrebbe detto nulla. Nelle parole degli esperti consultanti collegialmente: “Il 17.09.2018 l’impiegato del reparto 1 avrebbe avuto un colloquio tramite interfono con un detenuto, quando intorno alle 19:19 si è accesa la luce di chiamata dalla cella 143 sullo schermo dell’impianto di comunicazione. L’impiegato poi avrebbe preso la chiamata e comunicato al detenuto di essere in quel momento ancora impegnato in una conversazione telefonica e che si sarebbe fatto vivo più tardi. Dato che il detenuto non si è fatto notare ulteriormente, la chiamata è stata liquidata (chiusa). L’approccio rappresentato per le chiamate luminose non rappresenta una particolarità e nella pratica viene gestita in questo modo anche in altri istituti.”

Le indagini sull’incendio fin qui eseguite soffrono di diversi presupposti impliciti. Da un lato: tutte, senza eccezione tutte le indagini eseguite, partono da due possibilità: Ahmad A. ha incendiato la cella; oppure è stato un errore tecnico, un incidente. Quest’ultima ipotesi viene presto esclusa. La prima quindi è per gli inquirenti l’unica possibilità. Che qualcun altro avrebbe potuto appiccare l’incendio – analogamente quanto avvenuto nel caso di Oury Jalloh – non viene assolutamente riconosciuta come ipotesi realistica.

Oltre a questa ci sono una serie di ipotesi: A. si trova in carcere innocente da tre mesi. Quando lo fa notare a qualcuno, questo viene liquidato come tentativo di mentire per farsi rilasciare o come osservazioni di una persona confusa. E se avesse voluto dare fuoco alla cella per protesta ma non morirne? E se le guardie carcerarie avessero pensato: beh, lasciamolo per un po’, gli sarà di lezione?

Non si sa. E analogamente al caso di Oury Jalloh non si saprà mai se non viene fatta pressione sulle istituzioni. Chiaro è che il Ministero della Giustizia della Renania-Settentrionale Vestfalia non può fingere che non sia successo niente. Quindi la strategia è: ammettere quello che non si può negare. Questo però sempre nella direzione di non dover porre le domande veramente sgradevoli su razzismo e disumanizzazione. “Errori involontari”, quelli ci sarebbero stati. E tutto questo sarebbe “tragico”.

Che lo Stato agisca in questo modo tuttavia è normale. Più sconvolgente è che anche l’auto-nominato “quinto potere” non compia particolari sforzi per chiarire il caso. Se si sia trattato effettivamente di suicidio, omicidio o uccisione colposa, questo nel momento attuale nessuno può dirlo. Senza pressione dall’esterno non verrà indagato. Ma più importante: già quello che sappiamo ora, mostra la smorfia di una gestione carceraria e di polizia nella quale i prigionieri sono umiliati e disumanizzati. E mostra il razzismo sistematico di queste istituzioni. In questo caso questa gestione ha cancellato la vita di un giovane uomo – e questo indipendentemente da chi ha dato fuoco alla cella. Questo andrebbe reso uno scandalo. E si potrebbe dire che deve essere eliminato.

http://lowerclassmag.com/2018/11/verbrannt-und-vergessen/#more-5962

23 novembre 2018 LOWERCLASSMAG

* La ricostruzione dei risultati dell’indagine si basa sul rapporto del Ministero della Giustizia della Renania-Settentrionale Vestfalia al Comitato per la Giustizia del Landtag del 5 novembre 2018, presentazione 17/1298

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