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Per Shaima e per tutte le vittime della rivoluzione tradita di Piazza Tahir

Il 24 gennaio di quattro anni fa, mentre partecipava ad una manifestazione per ricordare tutte le persone uccise durante la rivoluzione di Piazza Tahir, Shaima Al-Sabbagh veniva brutalmente uccisa dalla polizia egiziana.

32 anni, mamma di un bambino di 5, Shaima era un’attivista del partito egiziano “Alleanza popolare socialista”. Quel giorno Shaima stava partecipando ad Il Cairo ad una manifestazione per commemorare il quarto anniversario della rivoluzione. La “marcia dei fiori”, l’avevano chiamata così i suoi organizzatori, perché avevano deciso di sfilare con fiori tra le mani per rendere omaggio alle persone uccise nelle manifestazioni di Piazza Tahir. Shaima si spense tra le braccia del marito che si manifestando insieme a lei, dopo essere stata trafitta a morte dalle pallottole di gomma che la polizia di Al-Sisi le sparò da distanza ravvicinata.

Esattamente un anno dopo, il 25 gennaio del 2016, Giulio Regeni, giovane ricercatore italiano dell’Università britannica di Candbrige, mandava il suo ultimo sms. Da quel momento, di lui, non si seppe più nulla fino al ritrovamento, avvenuto nove giorni dopo, del suo corpo. Era in un fosso, lungo la strada che collega Alessandria a Il Cairo, straziato dalle torture inflittegli fino a provocarne la morte. I depistaggi delle autorità egiziane si susseguirono uno dietro l’altro: incidente stradale, rapina, spy story, giri di droga, “festini”. Di Giulio Regeni, gli attivisti egiziani che combattono ogni giorno contro una delle più orribili notizie del mondo, continuano a ripetere “L’hanno ucciso come uno di noi”.

Il 25 gennaio è anche il primo giorno della rivoluzione egiziana del 25 gennaio 2011. Successe tutto all’improvviso, quel giorno di 8 anni fa. Un popolo, quello egiziano, così apparentemente remissivo, scese per strada, si sollevò contro il regime di Mubarak ed affrontò la polizia antisommossa, i servizi segreti, i cecchini appostati da finestre e cornicioni. La rivoluzione di piazza Tahrir durò 18 giorni ed il presidente tiranno fu costretto a dimettersi. Ma per quella ribellione pagò un prezzo altissimo un’intera generazione di giovani che lasciò sul terreno oltre mille morti mentre chiedeva pane, libertà e democrazia e che, negli anni successivi ha subito di tutto: torture, detenzioni abusive e “sparizioni”.

E mentre ora si vaneggia su tutti i media mainstream sulla fantomatica dittatura venezuelana, nessuno pare più ricordare che in Egitto, il generale golpista Al-Sisi, ex braccio militare del dittatore Mubarak, con il colpo di Stato del 3 luglio 2013, mise in galera tutta la dirigenza dei Fratelli Musulmani che avevano vinto legittimamente le elezioni libere in quel Paese e fece, poi, “sparire” migliaia di oppositori ed attivisti egiziani mentre procedeva all’abolizione di tutte le libertà civili ed instaurrava una feroce dittatura militare.

Ebbene, contro quel colpo di stato sanguinario (che, per modalità e crudeltà, non fu molto diverso dal quel cileno del 1973) non si è levata una sola protesta da parte delle cancellerie dei paesi occidentali (ma non solo) che, anzi, hanno plaudito al dittatore perché con il colpo di stato e l’instaurazione della sua personale dittatura avrebbe “fermato la minaccia islamista” in quel paese. Basterà ricordare le parole di Matteo Renzi che definì Al-Sisi “un grande statista”.

Ma, nonostante tutto ciò, l’Egitto gode di buone relazioni sia con Washington che con Mosca ma anche con Riad e Tel Aviv. Centralità strategica sia nell’area mediterranea che nello scenario medio orientale e robusti interessi economici stranieri consentono ad Al Sisi di spadroneggiare nell’attuale intricato puzzle geopolitico internazionale. E quando ci sono in gioco sostanziosi interessi strategici e/o rapporti economici e commerciali, diritti umani, diritti civili e democrazia magicamente si trasformano in una variabile del tutto trascurabile e secondaria.

In tal senso, ad di là delle alzate di tono di facciata e delle sparacchiate revanchiste sul neocolonialismo francese, la posizione dell’Italia nei confronti dell’Egitto non è dissimile da quella di tanti altri paesi. Per il giornale indipendente Mada Masrche che segue da sempre il caso Regeni , le posizioni del governo italiano sono molto difficili da spiegare. Se da un lato, il presidente della camera dei deputati, Roberto Fico, si è schierato per fare luce sul caso, recandosi al Cairo per incontrare Al Sisi, dall’altro, il governo italiano manda segnali di senso del tutto opposto se ti tiene conto ad esempio del fatto che il ministro dell’interno Matteo Salvini ha definito la vicenda una “questione di famiglia”. 

Secondo il giornale, l’Italia ha alzato il tiro solo per effettuare una sorta di ‘test’ per saggiare la reazione egiziana ma senza aspettarsi davvero una svolta sul caso Regeni. Il governo italiano sta facendo la sponda agli enormi interessi che l’Eni ha in Egitto. L’Ente Nazionale Idrocarburi ha in cantiere un gigantesco progetto di estrazione di gas sulle coste e nel deserto egiziano avendo scoperto, nel 2015,  Noor, il più grande giacimento di gas del Mediterraneo. Nel giugno del 2018, poi, ne ha scoperto un altro nel deserto orientale, tre volte più grande di quello di Noor .
Ecco perché il nostro paese non ha nessuna intenzione di premere davvero sulle autorità egiziane né per ottenere verità e giustizia sul caso Regeni ed ecco perché non ha mai osato avanzare critiche o proteste nei confronti del regime dittatoriale imposto all’Egitto dal generale Al-Sisi. Gli affari prima di tutto.

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