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Algeria: un popolo riprende in mano il proprio destino

Il popolo algerino sta di nuovo facendo la storia.

Impossibile dare una stima anche solo approssimativa del muro umano che ieri per il terzo venerdì di seguito ha fatto diventare le strade dei fiumi in piena che si opponevano alla candidatura di Bouteflika per il quinto mandato presidenziale.

“Bisogna contare in milioni il numero di algerini che, questo 8 marzo, si sono appropriati delle strade e degli spazi pubblici della quasi-totalità delle città algerine”, scriveva la redazione di “Mediapart” alla fine della giornata di ieri.

Manifestazioni oceaniche e pacifiche si sono svolte ad Algeri, Orano, Costantine, così come nelle altre città di tutte le regioni, registrando una presenza ancora maggiore dei due venerdì precedenti e neutralizzando la strategia della paura messa in campo da una trama di poteri ormai delegittimata a livello popolare, a qualche settimana dalle elezioni presidenziali del 18 aprile.

Il presidente, in una recente lettera, come in precedenza uomini del suo entourage, faceva balenare l’idea di possibili “infiltrazioni” di fantomatiche forze interne ed esterne in grado di far precipitare caoticamente la situazione.

Queste parole scaturiscono dalla narrazione mainstream del potere in tutte le sue articolazioni che ha caratterizzato il periodo successivo la fine del “decennio nero”, cioè la guerra civile che negli anni novanta ha opposto l’esercito al “maquis” islamista, conclusosi con un bilancio di circa 200.000 persone morte e 20.000 “disperse”.

Per anni questa lettura ha legato la guerra civile alle “contestazioni politiche della fine degli anni Ottanta […] che hanno rimesso in discussione l’ordine politico che assicurava, dopo l’indipendenza, la sicurezza e la pace”, ha dichiarato la storica Karima Dirèreche a Le Monde in un intervista del 28 febbraio.

“Di colpo, si è finiti per convincersi che gli algerini non uscivano più in strada, perché hanno troppo sofferto e non aspirano più che alla quiete e alla pace, fosse anche al prezzo di una stabilità politica incarnata da un uomo di cui si ignora se sia ancora vivo o meno”.

La realtà si assunta il compito di smentire gli spettri agitati dal potere, a parte episodi isolati privi di valore, perché è stata una giornata di festa dove le fasce femminili della popolazione sono state le protagoniste delle mobilitazioni, vettori della partecipazione familiare più ampia.

Queste donne sono allo stesso tempo specchio di una società che cambia e che le vede sempre più istruite, in un mercato del lavoro invece caratterizzato dalla forte disoccupazione giovanile e dalla precarietà in settori a basso valore aggiunto; e il retaggio riemerso con forza del ruolo che hanno esercitato nella Lotta di Liberazione contro il colonialismo francese in cui si identificano come continuatrici.

Dentro la ricostruzione collettiva di un senso di sé, il popolo ritrova i capisaldi della propria ragion d’essere, le tragedie storiche di cui è stato protagonista e trae insegnamenti dai limiti delle mobilitazioni di altri popoli a lui vicini.

Ed il popolo algerino è il prodotto di un lungo processo rivoluzionario contro una feroce dominazione colonial; è passato per le forche caudine di una guerra civile decennale; ha visto il “fallimento” di ciò che sono state le cosiddette “Primavere Arabe”; ha conosciuto la mancata realizzazione delle promesse di cambiamento che non hanno nemmeno assunto la forma di una mutazione di facciata dell’attuale organizzazione economica e sociale in anni recenti, vedendo erose sempre più le conquiste acquisite con la Rivoluzione.

E non si tratta solo di un presidente ottuagenario gravemente malato, che da sette anni non appare in pubblico, iperbolizzando in maniera caricaturale una sorta di “intangibilità” del potere post-rivoluzionario, per sua natura opaco ma in grado di determinare in profondità le vite dei più di 40 milioni di algerini, di cui più della metà hanno trent’anni, ma non vogliono lasciare il loro paese e vogliono prefigurarsi un futuro per sé e per l’Algeria, la cui utopia fu scritta col sangue dei martiri che ne assicurarono la libertà.

Un interessante reportage dalla Kabylia di Ali Ezhar per Le Monde ci dà uno spaccato molto interessante di come questa regione sia parte integrante di questo movimento, affiancando le “tradizionali” rivendicazioni di questa porzione di popolazione refrattaria al potere centrale, invadendo le strade di Tizi-Ouzou, Bèjaïa e Bouria.

All’“avanguardia” nelle lotte di contestazione, ora fatta propria da una larghissima parte della popolazione algerina, la questione “berbera” non è messa al centro delle mobilitazioni.

Melissa Zoulim, studentessa di 22 anni dichiara al giornalista: “l’Algeria è la Kabylia e la Kabylia è l’Algeria”.

Sonia Siam, figlia di Medhi Siam – personalità algerina della lotta identitaria Amazigh – afferma: “i socials come facebook ci hanno fatto conoscere tra algerini, di unirci al di là delle questioni identitarie e dei pregiudizi”.

Tutti gli intervistati mettono in evidenza come i tentativi di contrapposizione intrapresi tra la porzione di popolazione che vive questo territorio e il resto dell’Algeria si siano rivelate fallimentari, e di come nessuno desidera mettere avanti le questione identitarie rispetto allo spirito unitario delle mobilitazioni nazionali, di cui tutti sottolineano l’essere una reale chance di cambiamento.

Hamou Boumedine, coordinatore del Rassemblement pour la Kabyile (il partito autonomista “RPK”), dichiara di aver visto nel resto dell’Algeria: “manifestazioni pacifiche, aperte alla mixité, con degli slogan pieni di Humour. Sono la prova che le persone hanno interiorizzato il concetto di democrazia[…] queste manifestazioni sono un momento di esorcismo politico”.

Un quadro dell’Unione Generale dei Commercianti e degli Artigiani Algerini afferma: “questo movimento è una occasione di dire che riprendiamo la nostra ‘algerinità’. Il governo ha fatto di tutto per far credere che noi vogliamo l’indipendenza. Qui non è la Siria, non ci uccideremo tra di noi. Siamo tutti algerini, bisogna ripeterlo”.

Il sociologo algerino Nacer Djabi, intervistato il 7 marzo da Le Monde, traccia un quadro comparato della composizione sociale e delle richieste politiche tra queste mobilitazioni, che lui stesso giudica “inedite”, e quelle che avevano caratterizzato l’Algeria fino ad ora.

Erano i giovani cresciuti nei quartieri popolari, poveri, che scendevano in strada per delle rivendicazioni socio-economiche, con la presenza di questa violenza simbolica: attaccavano i magazzini, i siti ufficiali… Solitamente la mobilitazione si estingueva per due o tre giorni, prima di ricominciare con le stesse forme di contestazione, svuotate di senso politico. Il potere allora riusciva a banalizzarle dicendo che le persone scendevano per gli alloggi, la semola, lo zucchero e il lavoro. Questa volta le rivendicazioni politiche sono molto chiare.”

Strano come in un paese come l’Italia, dove tutto ciò che si muove attorno al mondo del calcio assume subito un profilo rilevante, non si sia notata la rilevanza della “cultura da stadio” che anima una parte della protesta; eppure canti, cori e slogan qualcosa avrebbero dovuto far riflettere. E uno studio minimamente attento di queste società avrebbe dovuto indicare come proprio le arene sportive siano state i luoghi di “educazione sentimentale” delle fasce giovanili sempre più in rottura con il “sistema” e di come, nelle manifestazioni, chi “fronteggiava” le forze dell’ordine lo faceva con modalità da “stadio”.

Dimenticate le tradizionali rivalità tra club come tra il Moulodia d’Alger o Chabab Belouizdad – così come era successo ad Istanbul in occasione delle mobilitazioni di “Gezi Park” – ad Algeri il tifo organizzato algerino ha contribuito a far scendere in strada dai vari quartieri popolari le persone che hanno rinunciato a portare i simboli della propria appartenenza calcistica, per non dare occasione di stigmatizzare negativamente il movimento e dare una immagine di coerente unità.

I cori dello stadio sono stati uno dei modi “sotterranei” per esprimere un malessere di vivere covato da tempo, prima del 22 febbraio, talvolta con riferimenti compositi (dai boss mediatizzati della malavita internazionale all’uso di droghe), ma tutti ancorati alla vita delle periferie algerine, come quelli che riguardano l”harraga” – l’emigrazione clandestina per mare – sempre più presente nelle creazioni che youtube popolarizza ancora prima della loro prima esecuzione ufficiale.

Una delle canzoni più cantate nelle manifestazioni è un conosciutissimo coro, La Casa del Mouradia, che ha un doppio riferimento: uno alla “Casa di Carta” (la famosa serie di Netflix) e la casa del presidente della Repubblica!

L’assenza del campo islamista e l’incapacità dell’opposizione “ufficiale” di essere un interlocutore credibile delle proteste, la mancanza di “corpi intermedi” finora alla protesta e la “marginalità” dell’opposizione della società civile, si uniscono alle sempre maggiori defezioni tra i sostenitori di Bouteflika, contribuendo a rendere ancora più fluida e incerta la situazione.

Il caso più eclatante di questa “diserzione” è l’influente associazione degli anziani combattenti della Lotta di Liberazione Nazionale, che dopo avere affermato circa un mese fa di essere d’accordo con il quinto mandato al Presidente, martedì 5 marzo si sono dichiarati solidali con i manifestanti. Per loro, come riporta Rachida Al Azzouzi di Mediapart: “c’è una collusione tra partiti influenti in seno al potere e uomini di affari disgustosi che hanno beneficiato in maniera illecita del denaro pubblico”, in contraddizione con l’appello del 1° novembre – dichiarazione fondante della Lotta di Liberazione nel 1954 – e i valori della lotta algerina per la sua indipendenza.

Quali saranno i prossimi sviluppi e lo sbocco delle attuali mobilitazioni non è dato sapere, anche perché il potere che sembra in questi giorni “liquefarsi” non ha elaborato una exit strategy da una situazione inedita, che in ogni caso dovrà tenere conto di una variabile fondamentale: il popolo ha deciso di riprendersi in mano il proprio destino.

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