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La difficile transizione algerina, tra spinte di rottura e continuità del sistema

Un comunicato della Presidenza algerina di questo lunedì dichiara esplicitamente che l’ottuagenario presidente – da tempo gravemente malato – Abdelaziz Bouteflika darà le sue dimissioni “prima del 28 aprile prossimo”, data finale del suo mandato elettivo.

Nella stessa nota viene riferito che dovrà prendere delle “importanti misure per assicurare la continuità del funzionamento delle istituzioni dello Stato durante il periodo di transizione”.

Questa decisione cambia lo scenario prospettato dal Presidente stesso l’11 marzo scorso quando ha annunciato che non si sarebbe candidato per un quinto mandato, così come richiesto da manifestazioni oceaniche a cominciare dal 22 febbraio.

Le elezioni presidenziali si sarebbero dovute tenere all’interno del prolungamento della conferenza nazionale “inclusiva ed indipendente” che Bouteflika aveva già annunciato la settimana prima della terzo venerdì consecutivo di mobilitazione, insieme alla formazione di nuovo governo, ma il suo annuncio non aveva sortito alcune effetto.

Il nuovo primo ministro del governo sarebbe dovuto essere Noureddine Bodoui, con Ramtane Lamamra come vice.

Ma nel governo che è stato formato la domenica sera del 31 marzo – con notevole ritardo rispetto alla tabella di marcia prospettata – compare solo Bodoui, mentre Lamamra (particolarmente inviso alla popolazione) è stato probabilmente sacrificato per il ruolo svolto in queste settimane, come portavoce presso diverse cancellerie dei paesi con cui l’Algeria intrattiene importanti rapporti per presentare la strategia di “transizione” elaborata da Bouteflika.

Questo tentativo di “internazionalizzare” la crisi algerina, cercando all’estero il consenso di cui non godeva in patria, ha senz’altro contribuito a bruciare il numero due dell’exit strategy prospettata da Bouteflika.

L’attuale formazione governativa è probabilmente il frutto di un compromesso tra le alte sfere militari e l’entourage di Bouteflika, in un momento in cui queste sembravano andare verso l’accelerazione sulla rotta di collisione e mentre numerosi segnali sembravano prefigurare – come poi sostanzialmente confermato – un’ipotetica “epurazione” degli uomini della cerchia di potere più invisi alla popolazione, in quanto esponenti di quel ceto di rentier arricchitosi con l’”era Bouteflika” dal 1999 in poi. Lo strumento principale sono le inchieste giudiziarie per svariati illeciti che hanno reso “la corruzione” non un fatto episodico, ma un sistema di relazioni politiche.

Una richiesta di apertura delle inchieste propugnata pubblicamente da avvocati e magistrati che compongono parte di quell’arco di forze sociali che ha dato vita alle mobilitazioni.

Nel suo discorso dell’11 marzo, il presidente diceva di volere rimanere in carica fino all’elezione del suo successore (e quindi prolungando il suo mandato oltre ciò che prevede la costituzione) e affermava di avere seguito con attenzione le manifestazioni di cui comprendeva le ragioni, elogiandone il carattere pacifico.

Come aveva ben sintetizzato una manifestante, la situazione era quella per cui “volevamo una elezione senza Bouteflika, abbiamo Bouteflika senza elezioni”.

Ma la risposta di piazza del venerdì successivo aveva di fatto delegittimato ulteriormente questa ipotesi di gestione della transizione.

Nel primo pomeriggio del 25 marzo il generale Gaïd Salah era intervenuto con un discorso finalizzato a prefigurare una differente via d’uscita dall’attuale crisi politica algerina, divenendo un attore politico di alto profilo nell’impasse del ceto politico dirigenziale, visto anche il ruolo fino ad allora abbastanza marginale dell’opposizione politica, nonostante questa abbia elaborato congiuntamente nel corso dell’“hirak” una proposta articolata che pone la sovranità popolare al centro e la dissoluzione di un sistema di potere politico come priorità, che non deve logicamente essere in mano a chi ne è stato piena espressione in questi anni.

Una proposta che non fa che accogliere il sentimento della piazza, sempre più orientata a chiedere un cambio di sistema e non solo la sostituzione di alcuni suoi esponenti più in vista.

Il capo di stato maggiore aveva chiesto l’applicazione dell’articolo 102 della Costituzione, che prevede lo stato d’impedimento e la destituzione del Presidente della Repubblica – in questo caso l’ottuagenario Abdelaziz Bouteflika – a causa della grave e lunga malattia, che ha determinato l’impossibilità di esercitare le proprie funzioni.

Salah aveva prospettato un iter che avrebbe portato di fatto, a conclusione di varie tappe, a delegittimare la strategia dell’ottuagenario presidente contenuta nel comunicato del del’11 marzo, e all’indizione delle elezioni Presidenziali seguendo i vari passaggi previsti dalla Costituzione.

Nel suo discorso il capo di stato maggiore Salah aveva sottolineato il carattere esteso e pacifico delle attuali mobilitazioni e la loro richiesta di “cambiamenti politici”, così come il pericolo che tali mobilitazioni possano essere sfruttate “da parte di partiti ostili e malintenzionati, all’interno così come all’esterno […] miranti ad attentare la stabilità del Paese. Dei disegni abietti che questo popolo cosciente e vigile saprà sconfiggere”.

Aveva ribadito il ruolo storico e la funzione dell’esercito: “rimane leale nella nostra missione e nei nostri impegni, e non permetterà mai, a chi che sia, di distruggere ciò che il popolo algerino ha costituito”.

Aveva concluso affermando che diviene “necessario, anzi imperativo, adottare una soluzione per uscire dalla crisi che risponda alle rivendicazioni legittime del popolo algerino, e che garantisca il rispetto delle disposizioni della Costituzione e il mantenimento della sovranità dello stato”.

Le mobilitazioni di quest’ultimo venerdì avevano in parte rifiutato anche questa opzione di gestione della transizione, ed i toni tra l’esercito e l’entourage di Bouteflika si erano fatti piuttosto aspri, visto che quest’ultimo tentennava nel dar seguito a ciò che i primi suggerivano.

In un altro comunicato, oltre all’articolo 102, le alte sfere dell’esercito avevano ricordato la centralità degli articoli 7 e 8 della Costituzione, che ribadiscono la sovranità popolare, viste quelle esitazione e la spinta di una piazza ancora più numerosa che negli appuntamenti precedenti.

Ma la composizione del governo, che ha posto come numero due proprio Salah, sembra ricomporre questo conflitto e ribadire una gestione della transizione interna ad un sistema di potere contro cui continua a scagliarsi l’opposizione e l’ostilità della piazza, come fanno presagire le reazioni sui social ed il moltiplicarsi degli appelli a mobilitarsi per venerdì 5 aprile.

Il “Partie des Travailleurs”, al capo del quale c’è Louisa Hannoune, denuncia questo “nuovo tentativo di salvataggio del sistema”, dichiarando che il governo Bedoui è “il prodotto di una transazione politica”, e reitera il suo appello per eleggere un’Assemblea Costituente Nazionale e Sovrana (ACNS), la sola capace di “consacrare l’esercizio della sua sovranità da parte della maggioranza del popolo per operare la rifondazione di una politica istituzionale nazionale e quindi costituzionale”.

Ali Benflis del partito Talaie El Houriyet, giudica una provocazione La formazione del nuovo governo”. “Così come è stata annunciata non esprime nient’altro che il perseverare nella provocazione e nella sfida”.

Si potrebbe insomma approfondire ancora più profondamente il solco tra la popolazione e l’establishment, vista l’impopolarità di quest’ultima opzione di compromesso che riguarda l’Esercito – o meglio la sua dirigenza – finora il corpo dello Stato che aveva saputo meglio cogliere la necessità di un cambio radicale, un vuoto che fino ad ora è stato riempito dal movimento reale come scuola politica di massa.

Anche i partiti che erano stati il perno dell’era Bouteflika, infatti, stanno conoscendo un aspro scontro interno, con una parte consistente dell’apparato che “chiede la testa” dei rispettivi leader, considerati compromessi, come chi contesta Ouyahia – una delle persone più invise alla popolazione – chiedendone le dimissioni e minacciando la sede del partito nel RND, o i 150 membri del comitato centrale del FLN che qualche giorno fa chiedevano le dimissioni di Bouteflika.

Mentre continua e si inasprisce lo scontro tra la dirigenza della centrale sindacale UGTA – uno dei perni del “sistema Bouteflika” – e la base, entrata prepotentemente nelle mobilitazioni chiedendo tra l’altro le dimissioni dell’attuale segretario Sidi Said,  dodici sindacati autonomi hanno chiamato ad uno sciopero generale il 10 aprile, con una marcia ad Algeri.

In questa situazione dagli scenari incerti, una sola cosa appare certa, la mobilitazione popolare ha imposto ciò che poco più di un mese fa era impensabile: l’uscita di scena di Bouteflika, l’implosione dei corpi politici e sindacali “intermedi” che ne avevano fiancheggiato l’operato, la denuncia degli “avvoltoi” che probabilmente andranno incontro ad azioni giudiziarie per il loro operato fraudolento, il ricostituirsi di una identità collettiva fortemente ancorata ai propri valori “patriottici” scaturiti dalla lotta di liberazione nazionale e che rifugge le ingerenze esterne e la peste jihadista, il catalizzare di una vasta solidarietà che comprende i residenti algerini all’estero e i popoli del Maghreb.

Il 5 aprile sarà l’ennesimo banco di prova per comprendere se la spinta verso la rottura saprà di nuovo scompaginare il tentativo di forgiare un abito nuovo al vecchio assetto di potere, agli interessi che difendeva e alla configurazione dei rapporti internazionali di stampo neo-coloniale a cui rischiava di allinearsi.

La “Stella Nera” algerina brilla ancora…

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