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Algeria: movimento popolare, proposte di transizione e “vecchio regime”

L’Hirak algerino, iniziato il 22 febbraio di quest’anno, è giunto questo sabato al suo quarto mese di vita.

Anche venerdì 21 giugno gli algerini sono scesi numerosi in strada nelle maggiori città per comunicare che il corso prefigurato dalle alte cariche dell’esercito non rispecchia le aspettative popolari.

Nonostante un movimento inedito nella storia dell’Algeria indipendente, la stagnazione politica continua, registrando l’impasse dovuta alle soluzioni fin qui predisposte, in un sostanziale equilibrio delle forze in gioco, tra il vecchio che muore senza che il nuovo riesca a nascere.

Se da un lato le parole pronunciate dai Gaïd Salah, capo di stato maggiore dell’ANP e fin qui demiurgo della gestione post-Bouteflika, pronunciate il 6 giugno per un “dialogo globale” in vista della tenuta delle elezioni presidenziali sono rimaste lettera morta, dall’altro le forze dell’opposizione che fungono da “delegato politico” delle differenti componenti dell’Hirak – nonostante la pressione popolare – non sono riuscite ad imporsi, anche se stanno delineando differenti strategie di uscita dalla crisi.

Chiamo la classe politica, la società civile e le personalità nazionali a scegliere la via del dialogo globale. L’invito a dibattere di tutto ciò che è relativo all’organizzazione delle prossime elezioni”, aveva affermato il Generale, senza che il suo appello trovasse un riscontro positivo.

Nonostante le numerose inchieste giudiziarie (e gli arresti) di porzioni importanti dell’establishment dell’era Bouteflika, l’indizione di elezioni presidenziali – annullate per due volte consecutive e per cui non è stata fissata ancora una nuova data – non è stata vista fin qui come sufficinte per un cambiamento reale. Per il popolo algerino questo cambiamento sembra dover passare attraverso un processo diverso, che escluda il personale politico e i corpi intermedi che sostenevano l’ottuagenario presidente, da tempo gravemente malato, e che ora fiancheggiano politicamente le soluzioni propugnate dal capo di stato maggiore dell’esercito: Gaïd Salah.

Il generale dell’ANP, nonché numero due del governo transitorio di Bedoui – che insieme al presidente ad interim Bensallah, è tra le figure più screditate del vecchio regime (sono due delle odiate “3B”) – ed architetto della finora fallimentare exit strategy alla crisi portata avanti con il ricorso all’articolo 102 della Costituzione, preme ancora su una consultazione cui nessuno, nei ranghi dell’opposizione, si è fin qui prestato.

Mercoledì 19 giugno, Bensalah ha infatti ricevuto il primo ministro Bedoui per “esaminare l’organizzazione del dialogo, le condizioni e i meccanismi” per accompagnare il rilancio del processo elettorale, senza che questo “dialogo politico” ipotizzato abbia una reale indicazione sulla sua forma o il suo contenuto.

Certo alcuni obiettivi dell’Hirak sembravano impensabili…

Bouteflika ha prima rinunciato a presentarsi al quinto mandato grazie alla pressione popolare, ed il 2 aprile ha dato le dimissioni, mentre suo fratello e consigliere Said è stato arrestato in una delle tante spettacolari e “spettacolarizzate” inchieste giudiziarie, insieme a due potentissimi ex-capi dell’intelligence Tartag e Toufik, Una cosa imprevedibile solo alcuni mesi fa.

La libertà di stampa, una certa autonomia del potere giudiziario, un riconoscimento di tutte le componenti della popolazione, le libertà politico-sindacali dell’opposizione, la liberazione dei prigionieri politici e di opinione sono però tutto meno che acquisite.

Allo stesso tempo, l’opposizione che rifiuta le profferte di dialogo delle alte cariche dell’esercito è criminalizzata – la segretaria del maggiore partito d’opposizione (il PT) Louisa Hanoune, rimane ancora in carcere dopo che l’istanza di liberazione è stata rigettata per la seconda volta – e i tentativi di attacco ad una parte importante dell’Hirak e della popolazione algerina (la componente berbera) si sono intensificati ad una settimana (venerdì scorso) dell’anniversario della feroce repressione di cui nel 2001 era stato oggetto la manifestazione della componente amagith ad Algeri.

Gli slogan del movimento berbero d’allora sembrano una profezia per le istanze attuali della popolazione: “In ogni caso nessun perdono” e “stato assassino” risuonano da tempo nelle piazze algerine e nelle vivaci manifestazioni della diaspora.

Il 18 venerdì di protesta ha rigettato una volta per tutte la strumentalizzazione delle questioni identitarie per dividere gli algerini e indebolire le mobilitazione, nonostante gli arresti e le confische perpetrati nei confronti dei manifestanti che portavano la bandiera amagith (che per gli avvocati mancano del minimo fondamento giuridico).

Il grido della piazza è stato: “non cambiate soggetto, tetnehaw gaâ”, ovvero “ve ne andrete tutti!”. E’ stato insomma compreso l’intento manipolatorio delle parole proferite proprio da Salah nei giorni precedenti, a proposito di una presunta una “debole minoranza” tenta di “infiltrare” le marce brandendo “delle bandiere diverse dall’emblema nazionale”, dando delle precise indicazioni repressive che si sono concretizzate nei confronti dei manifestanti.

Ancora una volta il numero ha fatto la differenza, e alle due, nel picco della mobilitazione in tutto il paese, i tentativi polizieschi di confiscare le bandiere Amagith è cessato…

I manifestanti hanno gridato con differenti slogan la fratellanza che unisce tutte le componenti della popolazione algerina, chiedendo al sistema di cessare con la “fitna”, cioè la discordia che vorrebbero instillare.

Se la ri-appropriazione dello spazio fisico “a spinta”, nonostante il notevole e pressante dispiegamento poliziesco – ad Algeri teoricamente le manifestazioni sarebbero vietate – l’emergere di una proposta di via d’uscita dalla crisi da parte di tre soggetti, che coinvolgono più di settanta realtà organizzative, è stato comunque messo in campo con l’incontro ad Algeri del 15 Giugno (con un compromesso che denota comunque notevoli differenziazioni interne a questo variegato mondo), nonostante le libertà civili e la sovranità popolare su alcune decisioni che riguardano il futuro dell’Algeria sembrino ancora irrealizzate.

La designazione di una personalità nazionale o di una istanza presidenziale consensuale in grado di organizzare un processo elettorale, in un periodo che va dai 6 mesi ad un anno, con la composizione di un governo di unità nazionale per gestire gli affari correnti e la creazione di una istanza indipendente per l’organizzazione delle elezioni, è il compromesso realizzato il 15 giugno; che ha “scartato” l’ipotesi di una transizione che avesse come strumento l’elezione di una assemblea costituente, come proposto da alcune forze che compongono questo consorzio e altre organizzazioni politiche.

La società civile fa appello comunque all’apertura di un dialogo nazionale globale con “le dinamiche della classe politica, della società civile, delle personalità nazionale e degli animatori dell’Hirak, a proposito della situazione politica, economica e sociale del paese per uscire con dei mezzi per gestire la crisi”. Il dialogo sarà coronato da una Conferenza Nazionale, secondo la stessa roadmap.

Le Forze del Cambiamento – un altro soggetto in campo – che raggruppano personalità ed organizzazioni dell’Opposizione preparano un incontro nazionale allargato nelle prossime settimane, con un approccio simile; è ugualmente proposta anche una Assemblea Costituente, ed è oggetto di un vivace dibattito interno.

Inoltre, sette partiti fanno appello ad un “dialogo inclusivo”, tra questi vi sono le tre principali forze della sinistra algerina: FFS, PT e PTS, oltre alla RCD – che ha avuto uno storico incontro con il FFS – il MDS, l’UCP e il PLD.

Si tratta della costituzione di un patto politico consensuale proposto ad altre forze di alternativa democratica, al fine di costruire consensualmente “i contorni di un processo di transizione democratica” in Algeria, al fine di iniziare mercoledì 26 giugno un percorso di dialogo senza premesse.

Il documento per questo incontro aperto afferma:

La transizione democratica non è una scelta. È una necessità. Oggi, l’urgenza è di elaborare una politica ambiziosa, ragionevole e realista, lontana dai regolamenti di conti e dai calcoli ristretti. Mira a mettere fine ad un regime dittatoriale e a cambiare radicalmente il sistema, in vista di spingere il paese da un ordine costituzionale obsoleto verso un ordine democratico”.

L’influente organizzazione degli ex-combattenti dell’Indipendenza (ONM) ha proposto la designazione di una figura consensuale in grado di mettere in piedi una istanza indipendente per le elezioni presidenziali, procedendo ad una previa riforma elettorale e all’elezione di un governo di unità nazionale “conosciuto per la sua integrità”.

L’ONM afferma che: “il dialogo è una via naturale per uscire dalla crisi. Si tratta ora di coordinarsi con le organizzazioni e le personalità nazionali e storiche al fine di fissare un calendario per questo dialogo che permetterà di uscire con delle proposizioni d’azioni concreti per sorpassare la crisi politica”.

Per l’associazione dei vecchi combattenti, questa soluzione deve risolvere l’equazione tra le disposizioni contenute nella Costituzione e gli imperativi della realtà politica.

In questo contesto le dimissioni di un ex fedelissimo di Bouteflika – Sidi Said – da segretario della maggiore centrale sindacale algerina la UGTA (la cui dirigenza è il centro di numerose iniziative di protesta da parte della base sindacale) e l’attivismo nel tentativo di delineare una soluzione politica alla crisi della centrale dei sindacati autonomi, che raggruppano insegnanti, personale sanitario e giornalisti insieme ad altre realtà della società civile (identificando alcuni “eroi” della lotta di liberazione nazionale, organici alla protesta, come figure super partes di gestione della transizione) sono indice di una vivacità del movimento dei lavoratori, che ha ritrovato un protagonismo in grado di praticare obiettivi concreti (le dimissioni di un vecchio burocrate e l’elezione, il 21 giugno ad Algeri, in un controverso Congresso, del suo successore Labatcha Salim ) e di assumere una funzione “politica”, prefigurando una via praticabile e condivisa di uscita dalla crisi.

Pensiamo che il popolo algerino avrà l’ultima parola anche in questa difficile partita e che saranno i rapporti di rapporti di forza sul campo determineranno il rapporto di continuità/discontinuità e il grado di rottura con il vecchio che muore.

Certamente occorre da subito interfacciarsi con chi, dall’altra parte del Mediterraneo, ha messo in discussione un ordine “neo-coloniale” che permetteva il perpetuarsi del “sistema Bouteflika”, affinché il salto di qualità propugnato dagli algerini non si trasformi in un ascensore per le forze politiche che vogliono coniugare una politica maggiormente neo-liberista con una più grande subordinazione neo-coloniale alla UE. Ossia quello che sta avvenendo in tutta la regione con differenti mezzi: dallo strumento militare tout-court, come in Libia, all’imposizione di trattati di libero scambio, come in Tunisia con l’Aleca, o la delega della gestione “militare” dei flussi migratori come in Marocco; o infine il soffocamento di qualsiasi istanza di democratizzazione, come in Egitto, dove un presidente democraticamente eletto – l’unico nella storia del paese – prima è stato rovesciato da un colpo di stato, poi è morto durante la detenzione, con il bene placido oltre che delle petrol-monarchie del Golfo (Arabia Saudita ed EAU), con alcuni stati della UE.

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