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Le sfida della “seconda rivoluzione” algerina

Per il ventesimo venerdì di fila il popolo algerino è sceso massicciamente in piazza in una data che non ha quest’anno nulla di rituale, il 5 luglio: festa dell’Indipendenza del Paese conquistata nel 1962 dopo 132 di colonizzazione francese, e sei anni di lotta di liberazione condotta dal Fronte di Liberazione Nazionale.

L’anelito ad una “seconda indipendenza”, cioè al pieno raggiungimento delle istanze del programma originale del FLN sin dal novembre del 1954 è ben presente nella coscienza collettiva del popolo algerino dopo quattro mesi di mobilitazione, inedita nella sua storia repubblicana e che sta cambiando in profondità il Paese dal 22 febbraio ad oggi.

Ancora questo venerdì nelle strade delle città del paese nord-africano è stato ribadito il contenuto “dègagista” delle mobilitazioni – il “che se ne vadano tutti” – e il rifiuto del dialogo con i residui del sistema dell’ex presidente Bouteflika che ha governato il paese dal ‘99 (sempre più amputato da inchieste giudiziarie di cui il capo di stato maggiore dell’esercito Gaïd Salah si è fatto il maggior promotore), l’unità delle varie componenti della popolazione (quindi contro la divisione tra arabofoni e berberofoni e la criminalizzazione della componente che rivendica fieramente la sua identità Amagith contestualmente al suo patriottismo algerino), la necessità della liberazione dei prigionieri politici e di opinione.

La torsione autoritaria, in continuità con l’era Bouteflika, si esprime con la perpetuazione di un imponente dispositivo di “sicurezza” durante le manifestazioni, nonostante il loro carattere assolutamente pacifico – siano esse quelle del venerdì, quelle studentesche del martedì o le iniziative sindacali – , con la censura o la distorsione dell’Hirak sui media statali, con la demonizzazione dell’opposizione politica che rifiuta il dialogo offerto dal capo del governo transitorio Bedoui e dal presidente ad interim Bensallah, in vista della celere organizzazione delle elezioni presidenziali, con l’uso strumentale del potere giudiziario e soprattutto con la repressione tout court.

Il primo luglio è stata rigettata l’istanza di scarcerazione avanzata dai legali di Louisa Hanoune, deputata e leader del PT (il maggiore partito d’opposizione) che si trova in una prigione militare con accuse strumentali dal 9 maggio scorso – era dall’inizio degli anni Novanta, agli albori della “guerra civile” che un responsabile politico non era stato imprigionato.

Nella manifestazione di venerdì 28 giugno, 18 manifestanti sono stati interrogati perché portavano una bandiera amagith e saranno giudicati per “messa in discussione dell’unità nazionale”!

Domenica scorsa Lakhdar Bouregaâ, un ex combattente della lotta di liberazione nazionale di 86 anni – comandante del 4° distaccamento (wilaya) del FLN – e uno dei membri fondatori del Front des Forces Socialistes (FFS) nel 1963, è stato arrestato per “messa in discussione dello stato maggiore”.

In questo clima è stata attaccata anche Djamlia Bouhired, eroina della lotta di liberazione nazionale (fu condannata a morte dai francesi e la pena le fu commutata grazie ad una campagna internazionale), sempre presente – benché 83enne – alle mobilitazioni ed autrice ad uno splendido appello alla gioventù algerina dell’Hirak, erede dello spirito (nelle sue parole) con cui la sua generazione affrontò il colonialismo francese.

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Questo venerdì è stato un giro di boa, perché le elezioni presidenziali caldeggiate da G. Salah, come exit strategy dalla crisi politica attuale e sostenute dalla configurazione di forze che avevano sostenuto il 5° mandato per l’ex presidente ottuagenario gravemente malato, dovevano svolgersi il 4 di questo mese e sono state posticipate sine die, previo dialogo anche con quella parte dell’opposizione che ha accolto le proposte di consultazione e che non propugnano – come fa invece un’altra parte dell’opposizione – per l’opzione di una “assemblea costituente” come proposta per far voltare pagina al paese.

Allo stesso tempo il 9 luglio scadrà il mandato di novanta giorni del presidente ad interim Abdelkader Bensalah, facendo uscire il paese dal suo “quadro costituzionale”, con un governo “fantasma” e delle istituzioni paralizzate – annullando la strategia di uscita ipotizzata da G. Salah e rimettendo sul tappeto la necessità di ricorrere agli articoli dell’impianto costituzionale che conferiscono al popolo la fonte della sovranità del potere politico.

Nella settimana che ha preceduto il XX atto dell’Hirak sono stati dati tre segnali di “apertura” da parte di chi ha le redini del paese: le dimissioni, martedì, di Mouad Bouchareb da presidente dell’Assemblea (ex dirigente del FLN e ardente sostenitore del “quinto mandato”, una delle “3B” insieme a Bedoui e Bensalah di cui la piazza chiedeva la dipartita); la rinnovata offerta di dialogo alle opposizioni, mercoledì, da parte del presidente ad interim per attuare condizioni di trasparenza nella gestione delle elezioni presidenziali; e la promessa di inchieste giudiziarie da parte di G. Salah, nel suo discorso di giovedì,  contro gli alti responsabili che sono caduti ad un “livello basso e abietto di corruzione, a dispetto della loro perfetta conoscenza delle leggi vigenti”.

La strategia di governance è tutta qua: mantenere alcune caratteristiche del “regime” dal punto di vista della torsione autoritaria, aprendo al “dialogo”, disfacendosi di volta in volta di ex uomini chiave del regime stesso (una dozzina dimorano nelle patrie galere, ormai).

È chiara la sproporzione tra la forza del movimento (ampiezza, durata, e “radicalità delle richieste”) e la sua rappresentazione politica, ancora debole e frammentata (oltreché repressa, e la mancanza di personalità pubbliche – tranne alcuni ex combattenti – adatte ad interpretare il delicato passaggio di fase attuale, alla luce del fatto che l’attuale crisi politica è frutto di una crisi sistemica che ha investito gli attori economici, la rappresentanza politica, le sfere dell’esercito e degli apparati di sicurezza che hanno gestito i processi caratterizzanti l’intera “Era Bouteflika”.

L’esigenza di “democratizzazione” è una rappresentazione delle contraddizioni che svela un male più profondo e radicato.

Come abbiamo già sottolineato, una parte dell’opposizione (il “Forum per il Dialogo Nazionale”, cui partecipano anche l’anziano primo ministro Ali Benflis e l’islamista Abdallah Djaballah, riuniti sotto la sigla del “Fronte del Cambiamento”, e che ha come coordinatore un vecchio diplomatico che si è tenuto ai margini del “sistema” Abdelaziz Rahabi), propende per l’accettazione del dialogo e quindi della preparazione delle elezioni presidenziali, alla fine funzionale alla “rigenerazione del sistema” sotto mutate forme.

Una altra parte dell’opposizione, invece, firmataria di un appello per “una vera alternativa democratica” – che raggruppa la sinistra algerina e la lega per i diritti dell’uomo (FFS,PT,PST, RCD, e l’UCD di Zoubida Assoul) – ritiene che l’organizzazione delle elezioni presidenziali all’interno del quadro del sistema attuale non servirà ad altro che a perpetuare il sistema.

Non è possibile alcuna iniziativa di uscita dalla crisi senza la liberazione immediata di tutti i detenuti politici e d’opinione, senza la rimozione degli ostacoli all’esercizio del diritto a manifestare e circolare, senza l’apertura del campo politico e mediatico a tutte le forze politiche, sindacali e associative” affermano nell’appello.

Condizioni minime ineccepibili ed una prospettiva d’uscita legittima, ma che probabilmente deve ancora consolidare a livello politico i rapporti di forza maturati in strada, considerando che si apre la stagione delle vacanze per gli studenti universitari e che l’establishment farà di tutto per cooptare la maggior parte dell’opposizione criminalizzando le voci dissonanti, anche se non si vede all’orizzonte nessuno personaggio all’altezza del compito.

Se Bouteflika era l’unica carta che poteva giocarsi lo “stato profondo” per ricompattare le varie frazioni dell’establishment, senza essere riuscito a far scaturire un “piano B”, non ci sembra essere nessun uomo della provvidenza all’orizzonte in grado di gestire un cambiamento “gattopardesco” del sistema.

***

Al di là delle contingenze immediate di quella che sarà la strategia d’uscita provvisoria scaturente, da un lato, dal rapporto di forza tra il movimentoe chi ne sarà il delegato politico, e dall’altro l’aspirante nuovo establishment in continuità col vecchio regime, la posta in gioco in Algeria è realmente elevata.

Lo è per il ruolo del paese del Maghreb, non cooptato dentro le strategie militari neo-coloniali della UE nell’aerea (al contrario del G5 del Sahel), distante dalla cerchia di influenza dell’”asse del male” Egitto-Arabia Saudita-EAU più Israele, dotato di grandi risorse energetiche (esportatore di idrocarburi ed importatore di tutto il resto), con una fascia giovanile altamente istruita e notevoli possibilità di sviluppo in vari campi, nonché erede di un processo di lotta di liberazione che non è un semplice sbiadito retaggio identitario, ma di cui i contenuti sono l’idea forza viva dell’agire anche del “qui ed ora”.

È chiaro che la crisi sistemica abbia prodotto una crisi di egemonia degli apparati di potere – da cui si salva solo l’ANP, cioè l’esercito – diretta conseguenza, da una lato, dell’assottigliamento della manna dei proventi petroliferi  e dall’altro dell’iniqua ridistribuzione di questi, oltre al processo di privatizzazione che ha avvantaggiato chi ha saputo ritagliarsi un ruolo nella cerchia di potere, dentro una polarizzazione sociale montante.

La gioventù, che è una componente fondamentale della popolazione e base dell’Hirak, non trova più realizzazione nel proprio percorso ed ha scartato (anche per la loro diminuita possibilità di realizzazione) dei due tradizionali canali “individuali” di strategia di fuga – l’emigrazione clandestina e lo studio all’estero – continuando a vivere tutt’oggi una situazione di precarietà lavorativa che si riverbera direttamente sul piano esistenziale.

Questa gioventù, insieme ad un rinvigorito movimento operaio e alle parti più coscienti della società civile, hanno scelto la pratica dell’“azione collettiva”; ed anche se la critica principale ha riguardato l’establishment in quanto tale, la vera partita si giocherà sul cambiamento del modello di sviluppo e sulla sua futura collocazione internazionale su basi paritetiche. Non solo sui processi di reale “democratizzazione”, intesi come recupero della sovranità popolare attraverso un adeguato processo politico decisionale, per ora di fatto inesistente e tutto da costruire, vista la debolezza dei corpi politici intermedi dell’opposizione e la delegittimazione “irrecuperabile” di quelli conniventi con il vecchio regime.

In sintesi: quale sarà il ruolo dell’Algeria nella futura configurazione euro-mediterranea, in cui l’UE diviene sempre più aggressiva con la volontà di applicare ed estendere trattati di libero-scambio (prima alla Tunisia con l’Aleca, poi all’Egitto e la Giordania con Medio-Oriente, vettori di una politica che coniuga neo-colonialismo e neo-liberismo), e irrigidisce le sue strategie di contenimento militare delle migrazioni volendo delegare (come fa già in Maghreb con Libia e Marocco) una parte della gestione con una notevole copertura finanziaria ed una non meno importante supporto politico?

Quale sarà il suo ruolo, in un contesto di competizione sempre più feroce tra differenti attori – come dimostra la proxy war in Libia, che dal 2011 ha annichilito uno degli “anelli forti” della regione (e dell’interno continente) – e in cui il “processo di normalizzazione” dello stato d’Israele (che ha incontrato una notevole opposizione popolare) procede in Marocco, Tunisia ed Egitto?

In una intervista a “Mediapart”, il ricercatore e politologo, Thomas Serres esprime bene come la “questione sociale” sia il centro della sfida algerina:

A partire dal momento in cui le persone escono in strada per denunciare coloro i quali ‘si sono mangiati il paese’, il problema politico è forzatamente in parte economico. Ma questo non vuol dire che la soluzione sia la liberalizzazione. Ma il contrario. Il tema della trasformazione dell’economia algerina è stato fatto proprio dalle élite liberali, gli ambienti affaristici, il governo, e gli attori internazionali. Molto spesso, questo vuole dire un adattamento alle norme dell’economia di mercato e una apertura alle imprese straniere. La vulgata neo-liberale si declina allo stesso tempo sotto differenti forme, e si adatta ai contesti locali. In Algeria questo significa che lo Stato avrà un ruolo centrale.

Il paese, di fatto, per ciò che concerne il suo bilancio, è allo stesso tempo esposto a delle pressioni in favore di un nuovo aggiustamento strutturale. Contemporaneamente, la riconfigurazione sindacale che ha avuto luogo nell’autunno scorso mostra che i lavoratori non sono disposti a sacrificare i loro diritti, soprattutto a beneficio di predatori incompetenti che hanno largamente approfittato delle privatizzazioni finora. Il futuro dei servizi pubblici, dell’insegnamento superiore, del codice del lavoro, delle pensioni, degli idrocarburi, degli investimenti stranieri… tutto questo è “sospeso”. Presto o tardi, queste questioni economiche verranno ad occupare il centro della scena. Non dimentichiamo che la promessa del 1962 era innanzitutto una promessa di giustizia sociale.”

Intanto è stata decisa la fine del ricorso all’emissione di valuta come strategia anti-ciclica in grado di bilanciare il dissanguamento delle entrate, a causa della diminuzione del prezzo del greggio e del gas, che l’Algeria aggancia al valore del brent.

L’Algeria è un paese dell’OPEC che ha deciso, insieme agli altri paesi dell’OPEC PLUS (un cartello allargato rispetto alla sua composizione originale), di confermare i tagli alla produzione stabiliti alla fine del 2018 (1,2 miliardi di barili al giorno) fino a marzo del 2020; a differenza degli USA, che stanno spingendo forte sull’estrazione battendo ogni mese nuovi record, dando così vita ad un relativamente nuovo scontro tra produttori, basato sulle differenti necessità oggettive anche tra due alleati politici rilevanti (Arabia Saudita e USA), o in convergenza tra nemici storici (Arabia Saudita e Iran); tutto questo sullo sfondo dell’embargo USA al greggio Venezuelano e Iraniano.

In questo contesto tempestoso, l’Algeria ha trovato nei tagli operati dall’OPEC una boccata d’ossigeno temporanea, in grado di tenere relativamente alti i prezzi, mentre è costretta a vedere nelle scelte degli Stati Uniti – che sembrano avere fatto marcia indietro rispetto ai progetti di fracking nel paese africano, cui erano interessati alcuni dei colossi petroliferi americani – un pericoloso nemico.

Il deficit di bilancio algerino si aggira intorno ai 1.000 miliardi di dinari (1 dinar è 0,0075 euro e 0,0084 dollari).

Una volta dilapidato il patrimonio delle casse della Banca d’Algeria, le scelte nel breve-medio periodo non potranno essere che la svalutazione o il ricorso forzoso ad un prestito.

Questo pone da subito la questione di un “maggiore assoggettamento” al FMI o uno sganciamento dalcircuito occidentale, intensificando il rapporto con alcuni già importanti partner attuali, come Cina e Russia.

In questo senso, questione “sociale” e collocazione internazionale sono strettamente legate.

116 dollari è il prezzo del greggio individuato dal FMI per ripianare il bilancio senza alcun tipo di sforzo da parte dell’Algeria; molto lontano dai 65 attuali.

La svalutazione del Dinar, ogni qual volta che le entrate petrolifere in dollari  non sono sufficienti per soddisfare la domanda salariale e le spese sociali (espresse in Dinar), è uno strumento usato assai spesso, in passato.

La spirale inflazionistica verso l’alto rimarrebbe omunque agganciata alla curva del valore della valuta estera, abbassando da un lato “il potere d’acquisto” dei salari e, dall’altro, diminuendo il peso della valuta mentre è dietro l’angolo uno scontro monetario internazionale di esito molto incerto.

55 miliardi di dollari sono già stati emessi nel quadro della “planche à billets” (iniezione di liquidità), resa possibile dalla revisione della legge dell’autunno 2017 sulla valuta e il credito.

Una massa di denaro equivalente al 32% del PIL è stata quindi stampata, e le autorità economiche hanno valutato che non può proseguire oltre senza generare una “febbre inflazionistica” senza precedenti, senza neanche – affermiamo noi – risolvere i problemi economici più urgenti.

Chi governerà, se non si porrà la questione dell’orizzonte strategico in cui inserire un sistema-paese da trasformare, si troverà probabilmente a scegliere “pragmaticamente” tra pace sociale e equilibrio di bilancio, dilatando – senza risolverle – le contraddizioni strutturali del sistema economico algerino.

Ma le scelte “pragmatiche” in politica non fanno la storia; semplicemente rinnovano e approfondiscono un sistema, lo stesso che gli algerini hanno radicalmente rifiutato anche questo venerdì e di cui hanno intima coscienza.

Per parafrasare Franz Fanon: l’Hirak è la conseguenza logica di un tentativo abortito di decerebrare il un popolo

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