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Il Kashmir e il conflitto tra India e Pakistan nel mondo multipolare

L’inasprirsi della crisi indo-pakistana, come conseguenza dell’approvazione da parte del parlamento del decreto presidenziale che cancella l’autonomia del Kashmir – abolendo l’articolo 370 della Costituzione indiana – e dando il via libera alla possibile maggiore “colonizzazione” della regione (eliminando l’art.35A che forniva particolari prerogative ai residenti permanenti) ha differenti livelli di lettura.

Azad Essa, in un articolo del “Middle East Eye” del 7 agosto, mette in evidenza il parallelismo tra la pratica sionista nei confronti dei palestinesi e quella indiana, con un il partito nazionalista Hindu al governo (il BJP) che ha mutuato la sua politica “annessionista” rispetto al Kashmir dall’estrema destra induista del RSS.

Del resto, numerosi intellettuali impegnati di fama internazionale, come Arundhata Roy o Tariq Ali, da tempo mettono in guardia dal pericolo costituito da questa formazione e dal processo di “fascistizzazione” che attraversa l’India; una dinamica che coniuga il nazionalismo hindu con il neo-liberalismo ed una sempre maggiore cooperazione con gli Stati Uniti.

Anish Kapoor, dalle colonne del The Guardian britannico, durante la visita del premier indiano a Londra nel novembre del 2015 – annunciando la sua partecipazione alle proteste contro la visita in Gran Bretagna – affermava chiaramente che: l’India è governata da un Hindu Talebano.

Il Talebano in questione è il presidente Narendra Modi, su cui il grande capitale indiano ha “scommesso” anche alle ultime elezioni di marzo di quest’anno, che hanno portato il suo partito non solo a confermarsi come principale attore politico indiano, ma addirittura ampliando i propri consensi dal 31% del 2014 al 38% di questa primavera.

Nel furore nazionalista che colpisce minoranze religiose ed etniche, l’opposizione e la dissidenza sono state messa a tacere e coloro che in un qualche modo ostacolano i piani del partito di maggioranza sono attualmente definiti “naxaliti urbani”.

I “naxaliti” sono guerriglieri maoisti che hanno dato filo da torcere ai progetti del grande capitale indiano, e proprio la famosa scrittrice indiana Roy ha dedicato una libro scaturito dalla sua esperienza tra le file della guerriglia come testimone.

Questo contributo – tradotto anche in italiano – ha permesso di far conoscere al mondo le ragioni di questi combattenti e il loro livello di radicamento ed ha un titolo significato: “camminando con i compagni”…

Ma questo vero e proprio regime di terrore, che da tempo si articola in operazioni contro-insurrezionali nei territori e tra le popolazioni che rifiutano l’attuale corso politico-economico indiano, e che soffrono della simbiosi mortale tra un sistema di potere basato sulle caste, centrato sull’ideologia induista (“una nazione, una religione, una lingua”) e un neo-liberalismo selvaggio da “prenditori” – con le loro solite pratiche di “accumulazione per esproprio” – ha preso di mira, criminalizzandola, tutta la dissidenza,

Ne hanno fatto le spese giornalisti “scomodi”, associazioni ambientaliste – Greepeace India ha avuto la licenza rimossa – e ONG, 9.000 sono state depennate dal registro delle autorizzazioni con l’insediarsi del nuovo governo, poco dopo la prima vittoria nel 2014.

Il partito di maggioranza rinfocola i sentimenti nazionalisti – che danno vita a veri e propri pogrom nei confronti dei mussulmani o alla discriminazione degli abitanti originari del Kashmir che abitano in India – come vettore di coesione interclassista, per portare avanti il proprio programma di privatizzazioni e di riforma del mercato del lavoro; un’arma di distrazione di massa per mascherare le non certo brillanti performance sotto il governo del BJP.

Il Pil, nel primo trimestre del 2019, è in frenata, attestandosi comunque sul +5,8% (contro il +6,6% di fine 2018), mentre i dati sulla disoccupazione per l’anno fiscale 2017-2018 – tardivamente pubblicati dopo le elezioni – mostrano un picco del 6,1%, il livello più elevato da 45 anni a questa parte. Una contrazione di un quarto nella vendita delle auto, sia a maggio che a giugno – indice dell’impoverimento della tanto decantata “nuova classe media” indiana – non è certo un fiore all’occhiello per il politico vezzeggiato e sostenuto da tycoon del capitalismo indiano come Guatam Adani e Anil e Mukesh Ambani.

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Tornando al Kashmir…

Quello che era uno stato – lo Jammu e Kashmir – che godeva “teoricamente” di una relativa autonomia (tra le maggiori concesse nel sistema federale indiano) diventerà – se i ricorsi giuridici presentati dall’opposizione non daranno esito positivo – un mero territorio amministrativo, tra l’altro scisso in due, tra la regione occidentale con l’attuale capitale Srinagar (dove si concentra la maggioranza della popolazione mussulmana nell’unico ormai ex-stato indiano a maggioranza mussulmana) e la regione orientale a prevalenza buddista.

In realtà è dal giugno dell’anno scorso che lo Stato è sotto la President’s rule, per la crisi politica che ha portato alla fine del governo “locale” precedente, presieduto da Mehbooba Mufti, che il giorno dell’approvazione parlamentare del decreto presidenziale ha dichiarato: “è il giorno più nero della storia della democrazia indiana”.

Il Kashmir – casus belli di due dei tre conflitti indo-pakistani (1947, 1965 e 1971) – è il territorio più militarizzato al mondo. Le stime oscillano tra 500.000 e un milione tra soldati, paramilitari e affini, da quando il movimento indipendentista ha preso piede alla fine degli anni Ottanta.

Un conflitto “a bassa intensità” che ha mietuto 70.000 vittime e 7.000 persone scomparse, e immani sofferenze alla popolazione, che in questi giorni – in prossimità della festa mussulmana del sacrificio (Eid) – sta conoscendo una recrudescenza dello stato d’assedio, con il breakout di comunicazioni, l’evacuazione di turisti e pellegrini, l’arresto di figure di spicco della politica locale, e quelle che vengono di fatto considerate “forze d’occupazione” che pattugliano le strade con check points e filo spinato.

Era stato proprio un attentato il 14 febbraio scorso da parte di un militante “separatista” contro un convoglio di para-militari indiani, che aveva, in piena campagna elettorale, dato vita ad una nuova escalation militare con il bombardamento aereo indiano nel territorio pakistano di una supposta base della formazione responsabile dell’attacco (in realtà un fiasco dal punto di vista militare, ma molto utile per la rielezione dell’attuale presidente in carica dal 2014), a circa 120 di km dalla capitale Islamabad, e la risposta pakistana che aveva portato tra l’altro alla cattura di un pilota, oltre all’abbattimento di aerei indiani.

Secondo la ricercatrice Charlotte Thomas, autrice di “Pogrom et Ghetto. Les Mussulmans dans l’Indie contemporaine”, la crisi indo-pakistana ha raggiunto i livelli toccati nel maggio 1999 con la “guerra del Kargil”, che vide i due paesi affrontarsi tra maggio e giugno oltre i 5.000 metri di altitudine per il controllo della via di comunicazione strategica Srinagar-Leh, dopo il blitz di soldati pakistani e combattenti islamisti dentro la “Linea di Controllo” indiana (il confine indo-pakistano che trancia in due il Kashmir). Era “l’Operazione Badr”, cui rispose l’India con la vittoriosa riconquista denominata “Operazione Vijay”.

E’ dal 2014 che il conflitto in Kashmir conosce una recrudescenza, sia per l’ascesa al potere del BJP, sia perché il PDB – un partito locale che sembrava giocasse un ruolo anti-BJP – è salito sul carro dei vincitori, di fatto lasciando scoperto, sotto il profilo istituzionale, uno spazio per l’ipotesi di opposizione.

All’interno dello scenario agiscono differenti formazioni, alcune “secolariste” che lottano sia contro il dominio pakistano che contro quello indiano del Kashmir – come il JKLF –; altre di ispirazione islamica, come Hizbul Mujahideen, che fanno dell’identità religiosa il proprio perno e vorrebbero che il Kashmir fosse incorporato nel Pakistan; altre ancora, come una sua scissione del 2016, entrate nella galassia jihadista, che lottano per la creazione di uno stato islamico tout court…

In ogni caso il sentimento di alienazione nei confronti dello stato centrale sta aumentando a dismisura, facendo presagire che – al di là dell’attuale regno del terrore imposto gli abitanti del Kashmir – “insorgeranno”, come dichiarato da un responsabile del Jammu and Kashmire People’s Conference ad un reporter del The Guardian in un recente reportage dalla capitale dell’ex Stato indiano.

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Ma è sul fronte strategico che le due potenze atomiche asiatiche si confrontano. Il Pakistan è un alleato della Cina, che considera “inaccettabile” la decisioni indiana sul Kashmir, e ha portato il Pakistan ad espellere l’ambasciatore indiano, ritirare il proprio da Delhi e interrompere gli scambi bilaterali.

Il Pakistan, già prima di diventare un nodo importante della “Nuova Via della Seta”, era interessato dal progetto della creazione di un corridoio commerciale annunciato nell’estate del 2013 – poi ribattezzato CPEC – che con la nuova strategia cinese è diventato un driver a tutto tondo di investimenti della Repubblica Popolare, non solo nel campo di inter-connessioni infrastrutturali strutturali, con le revisioni qpportate nell’aprile 2015.

Il piano è diventato un progetto di lunga durata, che terminerà nel 2030! La Cina ha investito 62 miliardi di dollari in Pakistan ed il “corridoio” cino-pakistano attraverserà zone di turbolenza, lambendo il Kashmir indiando e terminando nel porto strategico di Gwandar. I progetti non attengono solo al corridoio in senso stretto, ma riguardano centrali energetiche, cavi di fibra ottica, autostrade, aeroporti e trasporti pubblici.

Gli investimenti cinesi pongono le basi per lo sviluppo dell’industria pakistana.

Un progetto assolutamente rilevante è il PEACE (Pakistan and Esat Africa Coonecting Europe) che coinvolge Huawei Marine Pccw Global di Hong Hong e le aziende della galassia cinese di Hengtong: 12mila km di cavi sottomarini dal Pakistan all’Africa orientale, e poi fino a Marsiglia passando per il Golfo di Aden e il Canale di Suez, che arriveranno fino al Sud-Africa nella “Fase 2”, destinati a cambiare il volto della geografia dei cavi marittimi.

La Cina attraverso questa partnership strategica con il Pakistan persegue differenti scopi.

Primo: sterilizzare il retroterra dei militanti jihadisti dello Xinjiang al confine tra Afghanistan e Pakistan, e assicurare rotte sicure dall’Oceano Indiano al “Medio Oriente”.

Secondo: contro-bilanciare il suo storico competitor geopolitico regionale – l’India (specie per la convergenza di interessi con gli Stati Uniti su una parte rilevante dell’ “Indo-Pacifico”) – con il porto di Gwadar, che potrebbe ospitare la seconda base navale dell’esercito cinese dopo Djibouti.

L’India soffre per lo spazio che si sta ritagliando la Cina in uno specchio d’acque che ritiene strategico, con i porti nelle Maldive e nello Sri Lanka che saranno punti nevralgici della “Nuova Via della Seta” marittima; ed è perfettamente conscia dell’arretratezza del suo arsenale navale commerciale e militare nei confronti dello storico avversario; ed anche per questo – all’interno di una “autonomia strategica” – intensifica i rapporti con gli Stati Uniti.

Anche alla luce di questo scontro tra Cina e USA, che va oltre la “tradizionale” rivalità tra India e Pakistan, la questione del Kashmir riveste un importanza geo-politica non indifferente.

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