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I rifugiati palestinesi nel caos libanese

Il Comitato per non Dimenticare Sabra e Shatila, per il 19° anno consecutivo, è presente a Beirut per ricordare il massacro di Sabra e Shatila con una delegazione di ben 45 persone provenienti da varie città italiane.

Incontri politici e visite alle famiglie delle vittime del massacro avvengono, quest’anno, in una situazione politica, locale e internazionale, molto difficile per il popolo palestinese e che dà alla visita un’importanza politica che va oltre la solidarietà.

La situazione dei rifugiati palestinesi in Libano è drasticamente peggiorata dopo che, nel luglio scorso, nell’ambito della “campagna contro il lavoro irregolare degli stranieri” (iniziata per colpire i profughi siriani) è stata emanata una nuova legge che cambia il loro status, per quanto riguarda la questione del lavoro, da rifugiati a stranieri. La reazione dei datori di lavoro è stata il licenziamento immediato di centinaia di palestinesi per paura delle multe salatissime! E, dall’altra parte, i rifugiati hanno dato inizio, in tutti i campi, ad una rivolta contro questa legge che, oltre ad essere una violazione del diritto internazionale, si aggiunge a tutti i provvedimenti libanesi che vietano ai palestinesi, direttamente o indirettamente, di lavorare legalmente in 72 professioni. Ora l’obbligatorietà del possesso di un permesso di soggiorno ha reso la vita impossibile così, da una parte si continua a manifestare e rivendicare i diritti civili, una vita dignitosa e la cancellazione della suddetta legge e, dall’altra, si tratta con il governo tramite l’ambasciata palestinese in Libano per trovare un giusta soluzione. Recentemente è stata nominata una commissione interministeriale, sotto la guida dello stesso Presidente del Consiglio, per riesaminare quella legge.

Agli occhi di un osservatore attento certamente non sfugge il legame tra la legge del governo libanese e l’operato dell’amministrazione Trump che ha portato al taglio dei finanziamenti all’Unrwa (agenzia delle Nazioni Unite che si occupa dei profughi palestinesi) come primo passo per liquidare il Diritto al Ritorno dei rifugiati palestinesi (sancito dalla risoluzione 194 del 1948) nell’ambito del suo piano conosciuto come “l’affare del secolo”.

L’arrivo della delegazione avviene anche dopo due settimane di tensioni tra Israele e Hezbollah e il fallito tentativo della prima di seminare alcuni ordigni o, forse, di praticare, grazie ai droni, uno dei suoi assassini mirati contro un esponente di spicco di Hezbollah, e l’attesa risposta dello stesso Partito di Dio, arrivata puntuale, con precisione, contro uno dei carri armati israeliani più moderni, al confine con il Libano. Qui alcune fonti dichiarano che nel mirino degli israeliani c’era il comandante iraniano della brigata Gerusalemme, in visita in Libano. Il tentativo israeliano rientra nella logica dei governanti di Tel Aviv di colpire la presenza iraniana sia in Siria che in Iraq, come è avvenuto nelle settimane precedenti all’abbattimento dei due droni israeliani in territorio libanese.

In questi primi giorni di presenza in Libano la delegazione italiana ha avuto la possibilità di visitare il carcere di Khiyam (distrutto durante l’aggressione israeliana al Libano nel 2006), nel sud libanese. I nostri interlocutori, dopo averci fatto visitare ciò che resta del carcere e illustrato i metodi di tortura inflitti ai combattenti libanesi dagli israeliani e dai loro alleati dell’esercito libanese del sud, ci hanno informato che il comandante di un battaglione militare a guardia del carcere, Amer Elias Fakhouri, il “macellaio di Khiyam”, responsabile delle torturare dei prigionieri (in alcuni casi fino a provocarne la morte) e che nel 1998, dopo aver ottenuto un passaporto israeliano, fuggì negli Stati Uniti, è tornato in Libano pensando che i suoi crimini (nel 1998 era stato condannato in contumacia a 15 anni di reclusione con lavori forzati) fossero caduti in prescrizione. Questa notizia ha sconvolto i familiari dei martiri e gli ex prigionieri che hanno chiesto immediatamente il suo arresto, cosa che è avvenuta dopo molte insistenze. Ora tutti aspettano che venga processato con l’accusa di “tradimento della patria”. E non solo lui, ma tutti quei collaborazionisti che sono scappati con l’occupante israeliano e tentano di tornare o sono già nel paese. Su tale posizione si trovano d’accordo non solo la maggioranza delle forze politiche libanesi, ma anche il coordinamento delle organizzazione palestinesi in Libano aderenti all’Olp. Tutto questo mentre il governo sta lavorando ad un progetto che porti al rientro di tutti i collaborazionisti in un’ottica di pacificazione nazionale.

La situazione nel paese rimane condizionata da una profonda crisi socioeconomica, nonché politica e sarà difficile uscirne in tempi brevi, vista la mancanza di un vero progetto di riforma istituzionale che trasformi l’attuale stato confessionale in uno stato laico. Questa è la sfida, da anni, lanciata dal partito comunista libanese, come ha affermato Hanna Ghreeb, segretario generale del partito.

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