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La riforma delle pensioni di Macron: taglio degli assegni e aumento delle disuguaglianze

Riprendono in questo mese di settembre i negoziati sulla riforma del sistema pensionistico voluta da Emmanuel Macron. L’Alto Commissario incaricato di portarla avanti, Jean-Paul Delevoye, ex ministro di Jacques Chirac e che presto entrerà a far parte del governo, ha presentato le sue proposte alla fine di luglio. Elogia una riforma che, a suo avviso, andrebbe verso un sistema più «equo», per una pensione «universale».

L’“universalità”, nelle sue parole, si riferisce all’unificazione programmata dei 42 sistemi pensionistici oggi esistenti. Per l’equità, bisogna invece cercarla. Perché le trasformazioni annunciate dalla relazione Delevoye portano di fatto a una riduzione delle pensioni, in particolare per le carriere precarie e duramente colpite, con le donne in testa.

Il 26 agosto, in un’intervista televisiva alla fine del G7, il presidente Macron ha dichiarato di «preferire un accordo sulla durata del periodo contributivo piuttosto che sull’età» e ha assicurato di essere favorevole al mantenimento dell’attuale età pensionabile legale a 62 anni (prima della riforma pensionistica del 2010, l’età pensionabile era ancora di 60 anni). Ma il progetto di riforma presentato da Jean-Paul Delevoye a luglio incoraggia le persone ad andare in pensione anche più tardi, se vogliono mantenere un congruo livello pensionistico.

Delevoye promuove l’introduzione di una «età pivot» per il pensionamento, a 64 anni. L’età legale di 62 anni verrebbe mantenuta, ma i dipendenti che partono prima dell’«età pivot» di 64 anni subiranno una decurtazione della loro pensione di anzianità. Per quanto riguarda coloro che andranno in pensione più tardi, beneficeranno di un supplemento. Questo trucchetto incoraggerà la maggior parte dei dipendenti a lasciare il mondo del lavoro il più tardi possibile. I dipendenti che svolgono lavori gravosi e che non consentono loro fisicamente di lavorare dopo i 62 anni saranno penalizzati.

L’argomento di coloro che sono a favore dell’innalzamento dell’età pensionabile è ben noto: l’aspettativa di vita è in aumento, per cui è necessario lavorare più a lungo per finanziare tutte le pensioni. La logica sembra inconfutabile. Ma significa dimenticare che l’aspettativa di vita e la speranza di vita sana siano due cose molto diverse. In Francia, nel 2017, l’aspettativa di vita per le donne è di 85 anni e per gli uomini oltre i 79 anni. L’aspettativa di vita in buona salute, tuttavia, è molto più bassa: 62 anni per gli uomini, 64 anni per le donne [1].

Inoltre, non tutti i futuri pensionati sono uguali in termini di speranza di vita. Più sei ricco, più probabilità ci sono di vivere a lungo. In Francia, il 5% più ricco ha un’aspettativa di vita superiore di 13 anni rispetto al 5% più povero per gli uomini e di 8 anni per le donne. Gli uomini più poveri hanno una speranza di vita di soli 71 anni, contro gli 84 anni dei più ricchi. Per le donne, le più povere vivono in media 80 anni, rispetto agli oltre 88 anni delle più ricche.

I lavoratori più precari, così come quelli nelle occupazioni più difficili, dovranno versare contributi più a lungo, se riusciranno a farlo, per sperare in una pensione leggermente più elevata, ma avranno molte meno possibilità di goderne a lungo. «Il sistema sarà intrinsecamente ingiusto, poiché il supplemento e il taglio non terranno conto delle differenze nell’aspettativa di vita e nella capacità di rimanere nel mondo del lavoro in base alla carriera e all’occupazione», dice l’economista Henri Sterdyniak. Soprattutto perché «non vi sono disposizioni che incoraggino o costringano le aziende a mantenere i propri dipendenti al lavoro fino a un’età socialmente determinata» [2].

Prima della riforma pensionistica di Balladur del 1993, il livello delle pensioni era calcolato sulla base dei migliori dieci anni di carriera in termini di retribuzione. Oggi, il livello della pensione è calcolato in base ai 25 anni migliori per il regime generale e agli ultimi sei mesi per i dipendenti pubblici. Il passaggio dal calcolo dei dieci anni migliori ai 25 anni migliori aveva già abbassato il livello delle pensioni [3].

Il progetto Delevoye prevede ora il calcolo della pensione sull’intera vita lavorativa, per tutti, dipendenti privati e pubblici. Qualsiasi periodo non lavorato (disoccupazione, malattia, congedo per malattia, congedo non pagato, congedo parentale, ecc.) o lavorato a bassa retribuzione (a tempo parziale o al livello dello SMIC con i primi contratti o successivamente) comporterà automaticamente una riduzione della pensione.

Questo è sufficiente per abbassare ulteriormente il livello delle pensioni, soprattutto per le carriere discontinue, che vengono colpite duramente: donne che si fermano per qualche anno per crescere i figli, persone che sono disoccupate da lungo tempo prima di trovare lavoro, giovani che impiegano diversi anni per trovare un lavoro ben retribuito, coloro che cercano di sviluppare la propria attività senza poter guadagnare uno stipendio, lavoratori interinali…

La relazione Delevoye mira certamente a introdurre un «regime pensionistico minimo unico» per i più vulnerabili, pari all’85% dello SMIC [Salario Minimo Inter-Categoriale dal valore netto mensile di 1204€, ndt] per l’intera carriera. Questo regime «andrà a beneficio delle persone che hanno avuto periodi di lavoro a tempo parziale, una situazione che colpisce in particolare le donne, nonché coloro che hanno lavorato regolarmente al di sotto dello SMIC annuale, come i dipendenti in situazioni precarie, i commercianti artigianali o gli agricoltori», scrive l’Alto Commissario. Si tratta di un dispositivo di sicurezza minima, ad un livello molto basso (circa 1000 euro), che potrebbe certamente aiutare i più vulnerabili, ma non compenserà il declino per molti altri.

La relazione si presenta rassicurante, specificando che i periodi di congedo di maternità, la disoccupazione compensata, la malattia e l’invalidità daranno luogo a… dei punti. Questo è il fulcro del progetto di riforma: sostituire il sistema di base, che opera con rate annuali, con un sistema basato interamente sull’accumulo di punti. Attualmente, solo i regimi pensionistici complementari sono ammissibili ai punti [4]. Non il sistema di base. Questo opera con rate annuali, a seconda dei trimestri di lavoro. E, soprattutto, garantisce un tasso di sostituzione definito: contribuendo un tot per un determinato periodo, tutti possono calcolare la pensione ricevuta in seguito. Questo non è il caso di un sistema a punti.

«D’ora in poi, ogni euro versato conterà per la pensione e ne aumenterà l’importo». Ecco come Delevoye vende il sistema di punti. Certo, i punti verrebbero accumulati man mano che si accumulano i contributi in euro. Ma è solo al momento del pensionamento che l’importo della pensione viene calcolato, moltiplicando il numero di punti acquisiti per il valore dei punti. Tuttavia, questi ultimi saranno adattati ogni anno dai fondi pensione per bilanciare le loro finanze. Il futuro pensionato accumulerebbe punti durante la sua carriera senza conoscere l’ammontare della sua pensione.

Se i futuri governi ritengono che siano necessari ulteriori risparmi sulla spesa pubblica, il valore del punto diminuirà, e con esso l’ammontare delle pensioni. Mentre in un sistema a ripartizione (con calcolo per annualità e tasso di sostituzione garantito), è il livello dei contributi pensionistici che viene adeguato per garantire le pensioni. Un’inversione nella filosofia stessa del sistema.

L’economista Henri Sterdyniak offre la seguente spiegazione: «Il vero obiettivo della riforma pensionistica che Emmanuel Macron e il suo governo vogliono imporre è quello di assicurare la stabilità (verso il basso) della quota delle pensioni pubbliche nel Pil, per passare dall’attuale sistema che fornisce garanzie certe ai dipendenti, in termini di tassi di sostituzione e di età pensionabile, ad un sistema flessibile che consente di utilizzare le pensioni come variabile per l’aggiustamento delle finanze pubbliche».

Il progetto Delevoye incoraggerà inoltre i dipendenti meglio retribuiti ad orientarsi verso pensioni a capitalizzazione individuale, il cui denaro viene investito sui mercati finanziari. Oggi, solo gli stipendi molto elevati, superiori a 27.000 euro lordi al mese – meno dell’1% della popolazione – lasciano il sistema comune a ripartizione (indipendentemente dal loro stipendio superiore a 27.000 euro, la loro pensione sarà calcolata su questo tetto). Per questo motivo si rivolgono alla capitalizzazione dei sistemi di previdenza, il più delle volte attraverso i fondi pensione. In altre parole, investono gradualmente denaro (capitale) che alla fine pagherà – o meglio integrerà – la loro pensione.

Con il progetto Delevoye, questa soglia sarebbe ridotta a 10.000 euro lordi al mese (poco più del 5% della popolazione). Ma il sistema a punti, non garantendo un tasso di sostituzione, incoraggerà anche lo sviluppo del risparmio previdenziale per gli altri dipendenti. «Pertanto, le esperienze straniere e la crisi finanziaria hanno dimostrato quanto siano rischiose le pensioni a capitalizzazione e come possano evaporare in caso di crollo del mercato azionario», avverte la federazione di ingegneri e dirigenti della CGT. Il che sottolinea il fatto che «queste contribuiscono alla finanziarizzazione dell’economia, distruggono posti di lavoro e alimentano la speculazione a spese del settore reale».

Lo stesso Jean-Paul Delevoye sottolinea che gli attuali sistemi pensionistici a ripartizione si sono sviluppati proprio sulle ceneri della crisi finanziaria del 1929, che aveva improvvisamente azzerato il valore del risparmio. «L’inflazione elevata e poi la crisi dei mercati dei capitali avevano rovinato la fiducia nel risparmio individuale», afferma. I mercati finanziari sono davvero più sicuri oggi?

Note

[1] Secondo i dati INSEE, qui e qui.

[2] Si veda la nota del collettivo Économiste atterrés sul rapporto Delevoye, “Organizzare e garantire il declino delle pensioni”, luglio 2019.

[3] Vedi l’articolo “In nome dell’equità, più disuguaglianze”, Le Monde Diplomatique, maggio 2019, e lo studio “Disparità pensionistiche tra uomini e donne: cosa cambia di generazione in generazione?”, INSEE 2007.

[4] Compresa l’Associazione per il regime pensionistico integrativo, Arrco, e l’Associazione generale degli enti pensionistici per dirigenti, Agirc.

* Traduzione a cura di Andrea Mencarelli (Potere al Popolo) dell’articolo pubblicato da BastaMag.

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