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Cile: le due facce del neoliberismo e la lotta popolare

Porque esta vez no se trata de cambiar un presidente,
será el pueblo quien construya un Chile bien diferente.
(Inti Illimani – Canción del poder popular)

Assistiamo da circa un mese alle proteste del popolo cileno contro il governo neoliberista di Sebastián Piñera e alla tremenda risposta repressiva degli apparati di sicurezza con schieramento dell’esercito nelle strade, cosa che non si vedeva nel Paese dai tempi della dittatura di Pinochet. E le similitudini non finiscono qui: la repressione governativa ha infatti causato 18 morti (accertati) e si caratterizza per l’uso spregiudicato e ributtante della tortura e della violenza sessuale. Vi sono inoltre migliaia di arresti, circa 2.500 feriti e alcuni desaparecidos di cui non si hanno più notizie.

Fragoroso è il silenzio da parte dei governi e delle diplomazie occidentali che contrasta con il clamore mediatico manipolato suscitato negli anni recenti (flagrante il caso del Venezuela) da altre piazze in altri paesi dove governi “cattivi” erano dipinti come carnefici di piazze “buone e democratiche”. Nessuna troupe televisiva o giornalista al presidio sotto l’Ambasciata del Cile a Roma, organizzato nei giorni più intensi delle manifestazioni oceaniche a Santiago del Cile.

Ennesima conferma del fatto che in occidente non esiste alcun reale interesse per il rispetto dei diritti umani, che vengono invece utilizzati solamente per giustificare invasioni o guerre ad alta o bassa intensità, a seconda degli interessi, contro paesi non allineati.

Proprio il Cile, del resto, è l’esempio più limpido di cosa ha significato storicamente il pieno supporto da parte delle potenze occidentali ad uno dei sistemi del terrore più spaventosi dello scorso secolo: la lunga dittatura di Augusto Pinochet (1973-1990), spianata dal colpo di Stato dei militari cileni contro il presidente eletto Salvador Allende l’11 settembre 1973, meticolosamente preparata dai servizi segreti statunitensi e sponsorizzata esplicitamente fino a tutti gli anni ’80 dagli Stati Uniti.

Il Cile, come è noto, è stato un vero e proprio laboratorio nazionale di applicazione delle politiche neoliberiste promosse dalla scuola facente capo a Milton Friedman, padre fondatore del pensiero economico monetarista nato come reazione radicale e attacco frontale alle teorie keynesiane egemoni nei due-tre decenni successivi alla seconda guerra mondiale.

Una teoria che in quegli anni proclamava con toni altisonanti la totale autosufficienza dei mercati nel garantire pieno impiego e massima efficienza economica, coltivando un’ostilità assoluta nei confronti del ruolo dello Stato nella direzione dell’economia e dei sindacati nel mercato del lavoro, visti come fastidiosi intralci al libero dispiegarsi delle forze di mercato. 

La giunta militare di Pinochet adottò sin dal principio un rigorosissimo programma neoliberista su vasta scala: una vera e propria terapia shock di marca liberista. Giovani economisti cileni studenti della scuola di Chicago, i famigerati ‘Chicago boys’, divennero consiglieri, ministri, vice-ministri del governo, scandendo per anni il programma economico di quello che passerà alla storia come il primo laboratorio neoliberista del mondo.

Privatizzazioni su larga scala, taglio brutale della spesa pubblica, distruzione del ruolo dei sindacati, crollo dei salari reali, disoccupazione a due cifre cronicizzata (tasso medio durante la dittatura pari al 19%), aumento esponenziale delle disuguaglianze, fortissima dipendenza dall’estero con aumento vertiginoso delle importazioni. Malgrado ciò gli epigoni del neoliberismo parlarono per anni di miracolo economico cileno in relazione al primo decennio della dittatura di Pinochet.

La fine della dittatura nel 1990 e l’indizione di elezioni democratiche non coincise affatto nel paese sudamericano con un cambiamento delle politiche economiche. A differenza di numerosi altri paesi dell’area, che nel corso degli ultimi trent’anni hanno conosciuto a fasi alterne svolte più o meno significative nella direzione politica e cicli emancipatori che hanno portato alla ribalta, a diversi gradi, il protagonismo delle classi popolari, in Cile i governi post-dittatura della Concertacion (1990-2010), ampia coalizione di partiti di stampo democristiano e socialdemocratico, non hanno mai impresso alcun cambiamento significativo alla politica economica neo-liberale.

Da Patricio Aylwin Azócar, Eduardo Frei Ruiz-Tagle e Ricardo Lagos Escobar arrivando alla “progressista” Michelle Bachelet, la linea generale, al netto di modesti interventi di tamponamento della povertà, è rimasta sempre quella neoliberista tracciata dal governo Pinochet.

Dal 2010, interrottasi la lunga serie di governi della Concertacion, è tornata al potere la schietta e diretta anima della destra neoliberista post-pinochettista con l’elezione di Sebastián Piñera che ha impresso una nuova accelerazione al programma di privatizzazioni e dismissioni dello Stato sociale e che ha dovuto fronteggiare un primo ciclo di forti proteste sociali nel biennio 2010-2011.

A seguire, una nuova parentesi della “socialista” Bachelet e dal marzo 2018 ancora Piñera. Il tutto in una linea di pienissima continuità mai sconfessata da nessun partito politico al potere. È così che si arriva al clima dell’ottobre 2019 e alle proteste oceaniche dei giorni scorsi.

Il Cile è oggi uno dei paesi sudamericani con i più alti livelli di disuguaglianze e, secondo il rapporto della Banca Mondiale del 2016 il settimo paese più diseguale al mondo. Il 25% della popolazione vive sotto la soglia di povertà, il salario minimo (fissato nel 2019) ammonta a 375 euro lordi mensili e i prezzi sono troppo elevati per permettere una vita dignitosa; il sistema di tassazione ha esplicite caratteristiche regressive; l’istruzione pubblica è tra le più costose del continente americano; i servizi pubblici e il welfare sono bassi a causa della forte impronta liberista che ancora permea lo stato cileno e la sua stessa costituzione; altissimo il livello dell’indebitamento privato, surrogato dell’assenza di uno stato sociale universalistico; elevata l’esposizione all’estero e la dipendenza economica e geopolitica dagli Stati Uniti e dal dollaro. 

È in questo drammatico contesto di disuguaglianze sociali, di assenza di servizi e di diffusa povertà che una goccia ha fatto traboccare un vaso già pieno da anni. Un aumento del costo del biglietto della metro stabilito dal governo Piñera e giustificato come risultato indiretto dell’aumento del prezzo del petrolio e del valore del dollaro, è stata la scintilla che ha esasperato lo scontento sociale scatenando la rivolta nelle strade di Santiago e di altre città del paese.

Il 21 ottobre è stato annunciato il ritiro della misura contestata, ma le proteste, e la conseguente repressione brutale, sono continuate generalizzandosi e assumendo il carattere di una vera e propria rivolta contro il neoliberismo. Slogan, messaggi e uno spirito unitario che non si vedeva dagli anni immediatamente successivi alla dittatura si sono centrati tutti su un unico obiettivo chiaro e semplice che trascende la breve esperienza del governo in carico: basta neo-liberismo. Dopo 46 anni di governi neoliberali, coperti di diversi panni, i nodi in Cile sembrano venire al pettine.

La storia del Cile ci mostra tristemente la vera natura del capitalismo. Il capitale ha un unico obiettivo: l’accrescimento continuo del profitto. Quando può ottenerlo senza resistenza da parte dei lavoratori e delle loro organizzazioni di avanguardia, un contesto di apparente calma sociale fa da sfondo al sotterraneo processo di sfruttamento. I profitti aumentano, i lavoratori si immiseriscono, i ribelli e i contrari sono facilmente isolati socialmente e culturalmente. La violenza è inutile, perché la repressione è attuata tramite i media e l’egemonia culturale. Una situazione del genere si ha al momento in Europa.

Succede però che  volte alla lunga l’inganno non funziona più ed allora le popolazioni e i lavoratori protestano, come in Cile. La televisione e i giornali non bastano più a dire che va tutto bene, che la povertà non esiste e che è giusto che i ricchi siano sempre più ricchi ed i poveri sempre più poveri. Le masse sono determinate, esauste e le loro proteste mettono in crisi il sistema.

Ed è a quel punto che scatta la violenza, la repressione, gli omicidi, le torture, le violenze sessuali, i desaparecidos. Non esiste dunque un capitalismo buono, ma un capitalismo che presenta varie facce a secondo del luogo e del momento storico. Ma il nemico è sempre il medesimo con il medesimo obiettivo: il profitto, il profitto, il profitto… a costo di sfruttare, a costo di ingannare, a costo di corrompere, a costo di uccidere, a costo di distruggere e inquinare il mondo, a costo dell’orrore.

Per avere un’idea più concreta di quanto sia accaduto e stia accadendo in Cile riportiamo di seguito un importante contributo di cronaca dei giorni di protesta e repressione scritto da una compagna argentina.

CILE: una democrazia in crisi e le risposte degne di una dittatura

Da tre settimane il Cile è al centro dell’attenzione della stampa internazionale tradizionale e, soprattutto, dei media alternativi. L’innesco di tale attenzione è stata la proclamazione dello ‘stato di emergenza’ e del ‘coprifuoco’, che ha consentito alle forze armate di prendere possesso della sicurezza in tutto il paese.

Esiste un’importante distinzione nel tipo di narrazione e copertura degli eventi che ogni tipo di media svolge: da un lato, i media egemonici preferiscono concentrarsi sull’apparente violenza dei manifestanti; dall’altro, i media alternativi, i social network e le organizzazioni internazionali per i diritti umani sono allarmati dalla situazione irregolare di violenza da parte dello Stato e dalla violazione dei diritti umani verificatasi durante la repressione condotta dal governo cileno.

La scintilla iniziale, nata come risposta del movimento studentesco contro l’aumento del biglietto della metropolitana, ha avuto origine con una richiesta di evasione di massa in diverse parti della città di Santiago per una settimana. E continua ancora oggi con centinaia di migliaia di manifestanti per le strade di diverse città del paese.

Questa chiamata alla piazza è stata seguita non solo dagli studenti, ma in modo straordinario dall’insieme della società cilena che versa in una condizione di profondo malcontento e crisi sociale, economica e politica.

In risposta alla protesta di massa, il governo di Sebastián Piñera ha dato luogo ad una dura repressione, con un gran numero di truppe delle forze speciali della polizia in uniforme a guardia delle stazioni. Ciò ha raggiunto il vertice con la dichiarazione dello ‘stato di eccezione’ di venerdì 18 ottobre e con il presidente Sebastián Piñera che, di fatto, ha dichiarato guerra al suo stesso popolo.

Tuttavia, le misure repressive del governo cileno non sono riuscite a frenare il potere di mobilitazione che la società cilena ha dimostrato nelle ultime settimane. I cileni hanno risposto nei giorni seguenti al coprifuoco e allo ‘stato di eccezione’ con migliaia di manifestanti per le strade. Opal Press, uno dei mezzi di comunicazione alternativi impegnato in una campagna di contro-informazione attiva e di denuncia dei gravi casi di violenza e abuso dei diritti umani da parte delle forze armate, riferisce:

L’occupazione delle strade da parte dell’esercito, invece di intimidire il popolo di Santiago, ha moltiplicato il suo sdegno. Pertanto, nonostante il fatto che più di un militare miri alla gente, i manifestanti si avvicinano a loro, scattano fotografie e li invitano a tornare in caserma. Ma le forze di guerra invece di andarsene provocano i cittadini eseguendo esercitazioni di guerra nella Plaza Italia della capitale cilena.

Lo scorso 25 ottobre oltre un milione di persone ha partecipato alla più grande manifestazione in Cile dal ripristino della democrazia negli Alamedas di Santiago, la capitale cilena. Ci sono accuse molto gravi di violazioni dei diritti umani, come la detenzione irregolare di tre rappresentanti del movimento studentesco cileno, che sono stati arbitrariamente detenuti mentre si trovavano all’interno di una casa, picchiati, insultati e rilasciati ore dopo grazie alla pressione esercitata dai video registrati al momento dell’arresto e della denuncia dei movimenti studenteschi.

Un altro caso che dimostra la violenza dell’esercito cileno è stata la detenzione dello studente di medicina Josué Maureira, che lo scorso 21 ottobre si trovava nelle vicinanze di un supermercato durante il coprifuoco. Joshua racconta che si era avvicinato al luogo dove lo avrebbero poi fermato poiché aveva sentito la richiesta di aiuto da parte di una persona in gravi condizioni. Tuttavia, non arriverà sul posto perché gli agenti di polizia lo fermeranno prima.

Il ragazzo è stato picchiato in malo modo e lo hanno anche costretto a confessare la sua omosessualità e poi aggredito sessualmente con oggetti diversi, diventando così uno dei casi più gravi di tortura sessuale segnalati finora. Ci sono almeno tre denunce presentate dall’Istituto Nazionale per i Diritti Umani (NHRI) delle donne che sono state aggredite sessualmente durante gli arresti durante queste settimane di proteste. 

L’NHRI e la Settima Corte di Garanzia di Santiago hanno ricevuto un’ondata di denunce per violazioni dei diritti umani commesse da agenti di polizia o dell’esercito. Ma le irregolarità continuano e addirittura non è stato dato il permesso ai rappresentanti dell’NHRI di entrare nei centri sanitari durante i giorni delle proteste.

Dopo che il governo di Sebastián Piñera ha rimosso lo stato di eccezione a seguito dell’enorme mobilitazione del 25 ottobre, è stata mandata nel paese una Commissione delle Nazioni Unite per i diritti umani, guidata da Michelle Bachelet, ex presidente della Nazione, oltre al comitato di crisi dell’organizzazione di Amnesty International che conduce un’indagine formale e che sta monitorando centinaia di denunce di violazioni dei diritti umani.

Il commissario delle Nazioni Unite ha tenuto un incontro con l’NHRI lo scorso giovedì 31 ottobre alfine di esaminare le denunce di violazioni dei diritti umani in Cile durante lo stato di emergenza. Attualmente, le cifre ufficiali parlano di almeno 18 morti, il numero di detenuti è salito a 898 nella regione metropolitana e a 1512 nelle altre regioni. Secondo i rapporti compilati dall’NHRI, 210 persone sono state colpite da proiettili e ci sono state 8 denunce di violenza sessuale.

Ora, dopo questa tragica panoramica di ciò che il Cile sta vivendo, la domanda che si pone è quale sia la forza che mobilita il popolo cileno che, lungi dal temere la repressione brutale, ha continuato a manifestare pacificamente. Qui risuona uno degli slogan più ripetuti nelle manifestazioni: “Non sono i 30 pesos, sono 30 anni“, in riferimento ai 30 pesos di aumento del biglietto della metro e in riferimento ai trent’anni di governi neoliberisti post-dittatura.

Il popolo cileno ci ha riempito di speranza con il suo risveglio, i discorsi dei giovani protagonisti di questa lotta che non finisce, ci hanno invitato a pensare che un mondo migliore è possibile e che in America Latina continuiamo a combattere contro il neoliberismo.

* Coniare Rivolta è un collettivo di economisti – https://coniarerivolta.org/

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