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USA-Iran: Il dado è tratto?

Con l’omicidio mirato del più importante dirigente militare iraniano, il generale Ghassem Soleimani, e del suo “numero due” in Iraq, Mahdi Al-Mohandes, avvenuto a Baghdad tra la notte di giovedì 2 e venerdì 3 gennaio, gli Stati Uniti hanno segnato un significativo passaggio di fase nella loro politica in Medio-Oriente.

Mike Pompeo, capo della diplomazia nord-americana e “falco” dell’amministrazione Trump, ha rivendicato l’azione in termini di “difesa preventiva” contro una ipotetica imminente azione contro gli USA, dichiarando venerdì alla CNN: «Il mondo è molto più sicuro oggi».

La volontà di innescare una escalation bellica non è stata mai così alta da quando l’amministrazione Trump aveva deciso, un anno e mezzo fa, di uscire dall’accordo sul nucleare iraniano, capolavoro diplomatico dell’“Era Obama”, che sembrava porre le fondamenta per la normalizzazione delle relazioni diplomatiche tra il “Satana imperialista” e la Repubblica Islamica all’interno di un processo internazionalmente condiviso.

Ma le contraddizioni inter-imperialistiche e la competizione internazionale segnano gli avvenimenti più che i buoni auspici della diplomazia.

L’omicidio mirato statunitense del maggiore architetto della politica estera iraniana si inserisce in un spirale di azioni e reazioni che ha caratterizzato l’ultima parte del 2019, preceduta da un esacerbarsi del confronto degli Stati Uniti e di Israele con l’Iran nell’intera area che ha avuto come ultimi scenari l’Iraq e la Siria, e la “sconfitta” di fatto della Coalizione a guida Saudita in Yemen per ciò che concerne il suo sfarinamento: “lo sganciamento” degli Emirati Arabi Uniti e l’imminente ritiro dei circa 10 mila combattenti sudanesi, una delle decisioni più “di peso” del corso sudanese post-Bashir.

Andiamo con ordine e ripercorriamo le tappe di quella che da “guerra commerciale” si sta trasformando sempre più in “guerra guerreggiata”, sebbene non frontale.

Attendendo di sapere quale sarà la reazione iraniana, è abbastanza verosimile l’ipotesi formulata da Kirsten Fontenrose – la precedente senior director per il Golfo nel Consiglio di Sicurezza Nazionale di Trump – che prevede in un arco geografico molto esteso: «una serie di azioni asimmetriche semi-imprevedibili contro gli interessi degli uni e degli altri».

Vedremo come questa latente conflitto asimmetrico si estenderà oltre gli attuali scenari delle “proxy war” tra Stati Uniti ed Iran – ma non solo – in Iraq, Siria e Yemen ed in parte Libano, o se cambierà di intensità.

Gli Stati Uniti hanno deliberatamente scelto di andare alla guerra contro un Paese che conta quasi un milione di uomini in armi, cioè la più potente forza militare con cui si è confrontata dai tempi della Guerra di Corea negli Anni Cinquanta sfidando l’Esercito Volontario del Popolo cinese. Allora – come poi in Vietnam – non andò benissimo per loro…

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Andiamo con ordine.

Quello dell’8 maggio del 2018 era un ritiro annunciato, per così dire, coerente con le dichiarazioni fatte a più riprese da Orange Man, ed in linea con i più feroci critici dell’accordo: Israele ed Arabia Saudita. Fu una scelta con una precisa finalità: rinegoziare l’accordo in posizione di forza, cioè di fatto costringere l’Iran ad una resa, facendolo rinunciare al ruolo di potenza regionale emergente.

«Ora che usciamo dall’accordo», aveva dichiarato allora Trump, «lavoreremo con i nostri alleati per trovare una soluzione reale, globale e duratura alla minaccia nucleare iraniana. Questo includerà degli sforzi per eliminare la minaccia dei missili balistici, per fermare le sue attività terroristiche nel mondo intero e per bloccare la sua attività di minaccia attraverso il Medio-Oriente».

Con quell’atto iniziava la politica della pressione massimale nei confronti dell’Iran attuata su più piani.

Sul piano militare prendeva forma con il tentativo,  rivelatosi fallimentare, della creazione di una “NATO araba” anti-iraniana; sul piano quello politico si tendeva a conseguire l’isolamento della Repubblica Islamica, anche qui senza notevoli successi.

Sul piano più propriamente economico si tentava lo strangolamento economico di Teheran attraverso sanzioni miranti a colpirne anche i partner economici, in particolare la “sponda UE”.

Ma il mondo multipolare evolve, e l’ipotetico “l’isolamento” iraniano si è risolto in una configurazione che ne fa in Medio Oriente la “terza gamba” della neo-nata partnership strategica russo-cinese, perno di un “arcipelago sciita” che ha acquisito un sempre maggiore peso ed è in grado di contro-bilanciare il polo islamico centrato sulle petrol-monarchie del Golfo.

La Cina è il primo partner commerciale iraniano…

Cina, Russia e Iran – a fine Dicembre 2019 – hanno tenuto delle manovre navali congiunte nell’Oceano indiano e nel Golfo di Oman. Una esercitazione navale inedita che aveva chiaramente lo scopo di mostrare come la Republica Islamica non fosse così “isolata”.

Ma torniamo alla decisione del ritiro nord-americano dal trattato sul nucleare.

Questa era una scelta in linea con l’allora Consigliere alla Sicurezza Nazionale, John Bolton, un entusiasta teorico del regime change in Iran, da conseguire con ogni mezzo. Questo falco dell’amministrazione Trump, ora defenestrato, nel marzo 2015, in una tribuna sul “New York Times”, aveva espressamente proposto di bombardare l’Iran per fermare l’atomica iraniana!

L’accordo sul nucleare, sottoscritto da Russia, Cina, Francia, Germania e Regno Unito, bisogna ricordarlo, era stato rispettato scrupolosamente dall’Iran, come comprovato più volte dall’Agenzia Internazionale dell’Energia Atomica che doveva monitorare la situazione.

Il compromesso raggiunto con l’accordo prevedeva che alla rinuncia iraniana al conseguimento del proprio programma nucleare doveva accompagnarsi il ritiro delle sanzioni a Teheran.

Così nell’agosto del 2018, passati 82 giorni dall’uscita dall’accordo, gli Stati Uniti varavano un “primo pacchetto” di sanzioni che si abbattono sul settore bancario, le materie prime, l’automobile e l’aereonautica civile. Questi provvedimenti vengono ampliati nel novembre dello stesso anno anche nel settore petrolifero e del gas, così come alla banca centrale iraniana.

I partner europei, “a parole” desiderosi di voler mantenere l’accordo e aggirare al contempo le sanzioni statunitensi, di fatto non tengono fede alle promesse, contribuendo all’asfissia economica del Paese, nonostante l’apertura di credito data alle promesse europee dalla Repubblica Islamica.

Ad un mese dal ritiro degli Stati Uniti, l’Iran annuncia di voler  accrescere il numero delle centrifughe per aumentare il suo stock d’uranio arricchito, e nel luglio dello scorso anno riprende l’arricchimento dell’uranio al di là del tasso autorizzato –  3,67% – fino al 4,5%, un livello comunque molto lontano dal 90% necessario per ipotizzare la fabbricazione di una bomba atomica. Gli esperti valutano infatti la ripresa del programma nucleare militare più una forma di “pressing” simbolico nei confronti dei propri partner che non una vera e propria corsa alla fabbricazione.

Sia detto per inciso, ma quando l’Iran – dopo il colpo di Stato della prima metà degli anni ’50, preparato dalla CIA – era un fedele alleato degli USA, veniva aiutato dagli stessi States nel programma di sviluppo della bomba atomica, come ha candidamente ammesso Henry Kissinger…

Il 2 maggio del 2019 le sanzioni vengono ulteriormente inasprite, abolendo  le esenzioni ai Paesi che importano petrolio iraniano.

Il portavoce della Casa Bianca alloro spiegò in un comunicato che «questa decisione ha come fine il ridurre a zero le esportazioni, per sottrarre al regime la sua principale risorsa di introiti».

Le esenzioni avevano riguardato 8 Paesi. I due principali acquirenti del greggio iraniano erano India e Cina; ma anche Turchia e Corea del Sud, nonché il Giappone, erano clienti importanti…

L’estate dello scorso anno la tensione sale con l’attribuzione all’Iran, da parte degli Stati Uniti, della responsabilità di un attacco a due navi (norvegese e giapponese), seguito dal “sequestro” della petroliera iraniana Grace 1 a largo di Gibilterra da parte delle autorità britanniche, accusata di volere consegnare il greggio alla Siria sotto embargo. In risposta, i “Guardiani della Rivoluzione” hanno arrembato una nave svedese, e poi sequestrato una nave battente bandiera britannica.

Ma le tappe di questa guerra “non convenzionale”  hanno riguardato non solo lo spazio marittimo, ma anche quello aereo con l’abbattimento – il 20 giugno – di un drone americano che avrebbe violato lo spazio aereo iraniano. Mentre un mese più tardi gli Stati Uniti hanno assicurato di avere abbattuto un drone iraniano colpevole di essersi avvicinatosi troppo ad una nave statunitense nello Stretto di Ormuz, circostanza smentita da Teheran.

A settembre, gli USA – seguiti da Parigi, Berlino e Londra – accusano Teheran di essere responsabile dell’attacco a due infrastrutture strategiche del settore petrolifero saudita, che hanno provocato il dimezzamento temporaneo della capacità produttiva dell’Aramco, la società del regno saudita.

In Novembre, Israele ha bombardato dei siti iraniani in Siria, una operazione di vasto respiro, come rivendicato dal regime sionista, solitamente restio ad attribuirsi la paternità di tali attacchi.

Ma è a fine novembre che l’escalation  nella “green zone”e viene avviata con gli Stati Uniti che  lanciano dei raid aerei che hanno ucciso 25 persone del movimento Kataeb Hezbollah pro-iraniano in Iraq ed in Siria, al confine con la Siria.

Un raid condotto dall’Air Force su suolo iracheno contro obiettivi iracheni, ma senza l’accordo del governo locale, in palese violazione della sovranità del Paese, così come l’esecuzione mirata nella notte tra giovedì e venerdì…

Due giorni dopo, migliaia di membri di Hachd Al-Chaabi – una coalizione di milizie sciite pro-iraniane – hanno forzato l’entrata dell’Ambasciata americana in Iraq causando diversi danni, costringendo le forze americane alla reazione con lancio di lacrimogeni e granate disaccerchianti che ha fatto 62 feriti, senza che intervenissero subito le forze irachene per disperdere i manifestanti provenienti dal corteo funebre per i “martiri uccisi dai raid americani”.

Come ha dichiarato il vecchio ambasciatore francese in Iran, François Nicoullaud: «l’attacco all’ambasciata ha fatto rivivere lo spettro del 1979 e dei 52 ostaggi americani detenuti 444 giorni. È tutt’ora una cicatrice e rimane una umiliazione molto forte».

Donald Trump aveva accusato l’Iran di orchestrare l’attacco all’ambasciata; non un avvertimento, ma una precisa minaccia, quindi.

I raid statunitensi erano avvenuti come rappresaglia alla morte di un contractor (mercenario) americano – e al contestuale leggero ferimento di quattro militari – nell’attacco del 27 dicembre condotto con lanciarazzi, l’undicesimo negli ultimi due mesi.

Quest’ultime azioni non sono state rivendicate da nessuno, ma sono state attribuite da Washington a Kataeb Hezbollah.

Le milizie sciite pro-iraniane denunciavano già prima dell’assassinio del generale iraniano la presenza statunitense di 5.200 soldati in territorio iracheno, possibile a causa dell’accordo di cooperazione, mentre negli stessi giorni in Parlamento un centinaio di deputati avevano sottoscritto un appello per mettere all’ordine del giorno l’allontanamento delle truppe straniere dal Paese.

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L’avvicinamento dell’Iran alla partnership strategica russo-cinese ha fatto suonare un campanello d’allarme anche nelle stanze degli strateghi del Pentagono, precedentemente inclini a sconsigliare azioni di rappresaglia, com’era già successo nella prima possibile escalation bellica tra USA e Iran.

Il calcolo costi/benefici questa volta ha fatto propendere per “un salto”. E non di poco conto…

Ma ora siamo anche in piena campagna elettorale, Trump ha bisogno da un lato di giocarsi una carta forte contro l’Impeachment, rassicurare il “deep state” statunitense e il complesso militare-industriale nord-americano, soprattutto se dalle file delle primarie americane per le Presidenziali emergerà l’outsider Bernie Sanders e non un uomo dell’establishment.

I successi conseguiti dalla mezzaluna sciita, in un arco geografico ampio, hanno impensierito non poco anche Israele e Arabia Saudita oltre agli USA, ed hanno messo in discussione i progetti imperialisti nell’area più di quanto si pensasse. Anche tenendo conto che le situazioni oggettivamente critiche nell’area, come Iraq e Libano, non sono volte così favorevolmente alla nuova Triplice Alleanza (USA, Israele, Arabia Saudita).

Il compattamento del “fronte interno” iraniano, l’allineamento anti-americano del quadro politico iracheno e probabilmente il rientrare della crisi libanese, sono “effetti collaterali” evidenti dell’attacco statunitense.

I maggiori attori geo-politici si sono espressi per una “de-escalation”, ben sapendo che l’Iran non potrà certo stare con le mani in mano e che effettivamente è stata solcata una linea rossa, foriera di imprevedibili sviluppi.

Intanto gli Stati Uniti hanno deciso l’invio di altri 3.000/3.500 soldati  in Medio Oriente; si tratta della Forza di Reazione Rapida della 82sima divisione aereo-trasportata.

Si uniscono ai 700 soldati che sono stati inviati in Kuwait all’inizio della settimana, dopo l’attacco all’ambasciata americana nella “green zone”.

Altro che disimpegno!

Mike Pompeo, intanto ha criticato venerdì i suoi partner europei dichiarando «francamente, gli Europei non sono stati così utili come avrei sperato», a differenza degli altri partner nella regione.

In un momento in cui anche “gli esperti” sbagliano clamorosamente le previsioni, essendo i loro strumenti tarati suk passato di un mondo in continua evoluzione ma che sta repentinamente cambiando, è chiaro che dobbiamo sostituire “le bussole impazzite” di cui dispone la morta egemonia neoliberale.

Lo dobbiamo fare con strumenti il più possibile adatti a questa fase in cui il conflitto inter-imperialistico si acuisce, e la fine dell’ordine egemonico statunitense neoliberale non potrà che prodursi con rotture brutali, e reazioni nord-americane altrettanto feroci, nello stallo sostanziale dei rapporti di forza internazionali.

In questa partita, non è dato essere spettatori passivi degli eventi, neanche nel Vecchio Continente…

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