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L’Italia che cala le braghe ai migranti

“L’Italia agli italiani” e italiano non può né deve essere chi ha altra pelle, altro nome e prega un Dio diverso che non gli fa nemmeno il miracolo di farlo restare. Così su Yassine calano tristezza e rabbia. Dopo aver visto morire gente e rischiato i gorghi delle onde si sente beffato, ha gettato al vento mille euro per un imbarco pieno d’incognite che finisce col detestato ritorno. Cercava fortuna in quest’Italia che gli chiude le porte dicendo che lavoro non c’è. Sebbene il lavoro che Yassine farebbe, e tanti suoi fratelli hanno fatto e faranno, è quello che pochissimi giovani italiani sono disposti ad accettare, dalla Lomellina a Porto Palo. Quattordici ore sulla terra per quindici euro che risultano trenta solo sulla busta paga, se il padrone te la dà. La differenza è la stecca che si trattiene e Yassine deve chinare gli occhi e assentire. I maghrebini che da anni lavorano nelle nostre campagne questo raccontano perché il sopruso non è solo a Casal di Principe o Rosarno. Ogni azienda, ogni coltivatore diretto appena può s’approfitta, li paga meno del già misero salario dovuto senza rispettare tariffe, ore e modi. E’ l’arte italiana dell’arrangiarsi diventata mafia diffusa che s’assolve di fronte a uno Stato effettivamente gabelliere che tutto tassa permettendo ogni evasione, ogni malavita individuale e organizzata. Così pagano solo i deboli. Yassine è uno di loro e dopo aver scoperto che l’Italia non è quel paradiso spacciato dal caleidoscopio televisivo, dopo la beffa dell’accoglienza, i giorni all’addiaccio per promesse che non s’avverano, si sveglia e vede i poliziotti addobbati per la guerra che a muso duro gli sfilano cinghia e lacci.

Gli dicono di stare calmo, è per il suo bene perché non si faccia del male perlomeno sul traghetto o l’aereo che lo riporterà, meschino fra centinaia di meschini, sulla sponda dell’altro Mediterraneo. Quello di cui non si vuole la contaminazione. Mentre si regge i jeans, che sul corpo smagrito di adolescente vanno giù, Yassine prova a frenare le lacrime, si fa uomo di fronte al destino maligno che altri uomini gli impongono a forza. Sbarcava col sogno di un’Italia diversa da quella trovata, la nazione-famiglia che, nella finzione tivù si fa suadente, simpatica, sempre felice, pare non esistere a Lampedusa come a Manduria. Ma i problemi, che pure ci sono, non impedirebbero al tunisino di restare se quello che i signori dell’economia chiamano “sistema Paese” scegliesse un realismo utilitario. La via preferita è invece estrema e autolesionista. E finisce nel propagandismo dei respingimenti, utili a placare fobie xenofobe senza curarsi della stessa richiesta di manodopera che l’imprenditore padano (leghista oppure no) o siculo non può che trovare nel migrante. Se lui resta clandestino è grazie al vuoto di coscienza di datori di lavoro che evitano norme e contratti. Mentre la casta politica, intenta a blaterare d’America e federalismo, non trova neppure un briciolo di sintonia storica coi flussi migratori d’Oltreoceano. Ossessivamente controllati, certo, ma dotati di una parziale integrazione. Così l’Ellis Island del Canale di Sicilia serve per una quarantena senza scopo, soggetta egualmente a ghettizzare ma incapace a ricevere. Perché mentre chi ci rappresenta litiga scioccamente con razzisti come lui e con un’Unione Europea nelle sue deficienze non più colpevole dell’Italia, il Paese che verrà prosegue nella follìa di non servirsi di braccia, mente e cuore dei Yassine. Sa solo incalzarli, respingerli, umiliarli calandogli le braghe.

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