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Rappresentanti privati di diritto

Il collasso delle relazioni industriali in questo paese – che Sergio Marchionne ha sanzionato con la sua svolta del «modello Pomigliano» – sembra aver colto di sorpresa la principale organizzazione sindacale. È finita un’epoca nei rapporti tra imprese e sindacati. Ne parliamo con Umberto Romagnoli, a lungo docente di Diritto del lavoro a Bologna, e autore tra l’altro di commentari sia alla Costituzione che allo Statuto dei lavoratori.

Il sindacato era preparato alla possibilità che un imprenditore potesse far saltare tutti i «patti taciti» su cui si reggevano le relazioni industriali?
Siamo tutti impreparati. Nei decenni dopo la Costituzione abbiamo costruito coscientemente, consapevolmente, un sistema di relazioni sindacali primitivo. Le regole che ci siamo dati avevano una sola possibilità di essere applicate e, come si dice oggi, «esigibili»: la volontarietà consensuale di tutte le parti. Che avevano convenuto tra loro di non tradire un «gioco» che presupponeva la loro adesione. Era un atto di libertà e al tempo stesso di debolezza. Se a qualcuno salta in mente di poter rompere il giocattolo, accade perché era strutturalmente fragile.
Basta che una parte si sottragga?
Sulla base di una convenzione: il sistema sindacale è espressione dell’«autonomia privata», sia pure declinata in termini collettivi. Quest’autonomia dominava su tutto. Dava uno spazio di libertà apparentemente illimitato; in realtà, se c’è qualcuno che si chiama fuori, e può farlo, beh, il gioco è finito.
Nei momenti alti del movimento operaio questo sembrava andar bene…
Certo. Ma è mancata la percezione della necessità di irrobustire le retrovie, l’impalcatura di base. E quindi l’aspetto formale della legge. Questo richiamo all’«autonomia», implicitamente, significava un rifiuto «teorizzato» della legge. Anzi, la Cisl l’aveva «ideologizzato». Riteneva insultante e offensivo che il legislatore intervenisse in materia di lavoro. Nel ’66, quando fu varata la prima legge limitativa del licenziamento, che introduceva il principio del «giustificato motivo», i deputati della Cisl – allora non c’era l’incompatibilità – votarono contro o uscirono dall’aula. L’astensionismo legislativo in materia di lavoro era largamente condiviso anche dalla Cgil. Che, pure fu la prima, negli anni 50, a proporre l’intervento che oggi chiamiamo «Statuto dei lavoratori». Una formula usata per primo da Giuseppe Di Vittorio.
Sempre in un momento di difficoltà…
Sì, ma proprio per questo invocare la legge – in certe condizioni – è velleitario o addirittura controproducente. Esattamente come oggi. Per esempio: non ci sono regole condivise per stabilire chi rappresenta chi. Dunque, ci vorrebbe una legge. Ma chi la fa, in queste condizioni? Quando invece si poteva farla, con il movimento operaio all’apice della sua forza, eravamo spensierati. Pensavamo che quella fosse un’intelaiatura di forte tenuta dell’intero sistema.
Ci siamo accontentati dello «Statuto dei lavoratori»?
Che non è poco! Ma anche lo Statuto presuppone sempre uno spazio di rispetto assoluto per l’«autonomia privata collettiva». Si basa su quello; finché l’autonomia viene esercitata in un quadro di compatibilità reciproche tra tutte le parti sociali.
Quale prezzo ha pagato la Cgil per mantenere l’«unità sindacale»?
Alto, è stato alto. Nei lustri precedenti era considerato un prezzo da pagare; non solo per dare la possibilità alla Cgil di stabilire rapporti civili e proficui con la Cisl, ma anche perché pensavamo davvero – tutti – che il sistema sindacale fosse «autogestito». Mentre l’applicazione dell’art.39 della Costituzione, nella seconda parte – nei rapporti del sindacato con lo Stato e la contrattazione collettiva – cerca di stabilire in base a quali regole un «soggetto privato» come il sindacato possa stabilire regole che valgono per tutti; con un’efficacia «para-legislativa». Lì si entrava in una zona minata, perché non c’è nessuno Stato che conceda a un privato un potere simile senza esercitare un minimo di controllo sui presupposti in base ai quali un potere in qualche modo «pubblico» viene esercitato da un «privato». Negli anni ’50, quando avevamo un Parlamento chiaramente orientato in senso antisindacale, si poteva consentire allo Stato di intervenire? Per stabilire chi e come può fare contratti che hanno valore di legge? No. E si era costretti a cercare autonomamente, con gli strumenti del diritto comune privato, un sistema funzionante e che garantisse il possibile.
A questo punto ci ritroviamo con una Costituzione inapplicata, un contratto svuotato e nessuna regola sui trattamenti minimi…
Quest’ultima non c’è mai stata. Anche il contratto collettivo nazionale, oggi molto in discussione, con la sua struttura giuridica «privatistica», ha una copertura limitata. Copre soltanto chi partecipa a quel patto. Ma quel che conta è l’iscrizione dell’imprenditore al «sindacato stipulante» il contratto. Aderisce magari per un calcolo di convenienza, per opportunità, per garantirsi tranquillità in azienda. Ma non è giuridicamente vincolato.
E quando si sente, come ora, abbastanza forte…
Se ne frega. Anche per il sottosalario, il lavoro nero, beh, una parte di responsabilità – nell’estensione di questi fenomeni socialmente negativi – dipende dal fatto che non c’era una legislazione sui minimi. Né una contrattazione collettiva vincolante che garantisse l’ugualianza di trattamento economico e normativo. Fino a ieri tutto il sistema era tenuto insieme dal perno dell’unità sindacale. Proprio in vista di questo bene supremo ci fu sicuramente un allentamento dell’attenzione della Cgil nel pretendere l’applicazione dell’art.39 – laddove si prevede che la rappresentanza sindacale unitaria ammessa a stipulare contratti collettivi valevoli erga omnes aveva una base proporzionale. In quella fase, la forza associativa della Cgil era nettamente superiore a quella della Cisl. L’unità d’azione sindacale fu l’esito di una trattativa mai esplicitata, in cui la Cgil rinunciava a far valere la forza del numero in cambio di una convergenza di orientamenti sulle politiche contrattuali.
Ora tutto questo è saltato…
Ma questa è la chiave di tutto. Il resto son chiacchiere.
A questo punto il peso dei numeri andrebbe certificato per legge…
Sì, ma chi lo fa? Questo Parlamento vuol fare una legge così? Non so davvero cosa combinerebbe questa maggioranza parlamentare.
Più che in mezzo al guado, siamo in mezzo all’oceano…
Vero. Bisognerebbe trovare parole d’ordine capaci di attirare l’attenzione dell’opinione pubblica. Di ampio respiro confederale, perché se la Fiom resta da sola finisce in una «riserva indiana», direbbe Bruno Trentin. Basta anche poco. Tenere insieme l’ugualianza nel mondo del lavoro, tema trascuratissimo anche se il principio di eguaglianza sostanziale è uno dei pilastri della Costituzione italiana. Bisognerebbe costruire una proposta sindacale imperniata sul rapporto uomo/donna sul lavoro e sull’uguaglianza tra i lavoratori «standard» e gli «anomali». Pensiamo al mondo delle partite Iva fasulle. Se non gli parla il sindacato, chi lo fa? Ci sono queste grandi zone grigie del mondo del lavoro che dovrebbero essere toccate, coinvolte, da una politica contrattuale. Senza di questo un «nuovo sistema di regole» si basa sul vuoto. È come cercare di abbellire la casa quando le fondamenta non esistono.
Serve la mobilitazione di milioni di persone…
Su questo, c’è una percezione sociale che non è arrugginita. La gente non dorme. Bisogna saperci parlare.

 

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