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Fiat, un conflitto giocato sulla resistenza

 Campagna per i diritti, fondo straordinario e più «iniziativa»

La partita della vita si giocherà sulla capacità di tenuta. Fiat e Fiom si fronteggiano consapevoli di stare su un crinale da cui dipende il futuro della produzione e del lavoro in Italia. Non sorprende che il Coordinamento dei delegati Fiat metta a fuoco con chiarezza questo punto, concentrandosi sul «che fare?» per durare un minuto più dell’avversario e minarne la sicumera.

Fin qui la Fiat è andata avanti uno stabilimento alla volta, partendo – spiega Giorgio Airaudo, responsabile del settore auto – da quelli più deboli perché «senza produzione» e con la gente in cassa integrazione. Pomigliano e Mirafiori sono ormai casi paradigmatici, mentre alla Bertone – dopo sei anni passati sull’orlo della chiusura – il ricatto diventa addirittura doppio: «o dite sì alle mie condizioni, oppure vi riconsegno alla procedura fallimentare». Anche qui si va al «referendum» e la Fiom annuncia già ora che non firmerà quelle condizioni, chiedendo ai lavoratori di fare «quel che possono», certi che «Fiom non li abbandonerà».
Un quadro complicato e negativo, da cui la Fiom – conclude il segretario generale, Maurizio Landini – prova ad uscire con una «campagna nazionale sulla democrazia nei posti di lavoro» e la creazione di un «fondo straordinario» con il contributo di tutti gli iscritti. La prima mossa prevede anche una giornata di presidio davanti al parlamento, perché «dentro le fabbriche viene sospesa l’agibilità democratica e si vuole imporre un regime di libertà limitata». Una condizione «che riguarda soprattutto i lavoratori, mentre ai sindacalisti si propone una via d’uscita tramite lo scambio tra accordi di favore (permessi, agibilità) e complicità con le scelte aziendali».
Il fondo si rivela indispensabile per garantire ai delegati la possibilità di fare il proprio lavoro sindacale. «Con 8 ore di permesso al mese non si può fare nulla, nemmeno la misurazione dei tempi di lavoro di un solo collega». Il problema da risolvere è «l’attività permanente», dentro e fuori la fabbrica, con la Fiat che prova a ridurre i sindacati «resistenti», come la Fiom, a «organizzazioni semiclandestine». Ne deriva la necessità per i delegati di un «nuovo modo di operare», in una «fase di resistenza» che richiede iniziative straordinarie. E quindi servono soldi, magari per «tirar fuori» temporaneamente dalla produzione alcuni delegati, per dar loro modo di fare l’attività sindacale.
È un quadro da anni ’50, inutile girarci intorno. Ma proprio la strategia fin qui seguita dalla Fiat mostra punti deboli. Negli stabilimenti che producono modelli appetibili sul mercato (Melfi, Cassino, Sevel, tutto il settore dei veicolo industriali) l’atteggiamento dell’azienda è assai meno drastico: «non chiede la clausola di esigibilità», ovvero la rinuncia definitiva al diritto di sciopero. Là, insomma, c’è possibilità di un di più di iniziativa conflittuale che costringa il gruppo nel suo complesso a tornare sulle proprie decisioni. Difficile, certo, non impossibile.
Su tutti incombe la causa aperta a Torino contro il «modello Pomigliano», dove la Fiom accusa il Lingotto non tanto di «attività antisindacale» quanto di «truffa». La newco, infatti, risulta essere poco più di un trucco per aggirare la normativa esistente (il mantenimento di stipendio e livelli di inquadramento nella cessione di un «ramo d’azienda»). Se passa la tesi Fiom, l’accordo del 2010 non esiste più; se passa la Fiat, «qualsiasi impresa italiana proverà a cambiare ragione sociale e livelli contrattuali ogni anno». L’assemblea accusa più volte «l’ipocrisia della politica», che si rivolge ai lavoratori solo per «consigliare di votare sì» ai referendum imposti da Marchionne, ma si guardano bene dal chiedergli – se non altro – quel che chiede l’amministrazione Usa: «impegni precisi su investimenti, prodotti, occupazione», con «verifiche periodiche e stringenti» di quanto la Fiat va facendo. Un’ipocrisia bipartisan, «con il Pd paralizzato dalla soggezione verso l’azienda».
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Chrysler, il calendario americano di Marchionne

Francesco Paternò
Per capire come andrà alla Fiat, bisogna guardare sempre più a che cosa sta accadendo in Chrysler. Perché oggi lì stanno i soldi e sempre più lo saranno con il prossimo ritorno in borsa dell’icona di Detroit. Domani saranno resi noti i conti del suo primo trimestre, con quasi certamente i primi utili dopo la bancarotta di metà 2009. Utili che a fine anno dovranno essere, almeno negli obiettivi dichiarati, di circa 500.000 dollari. Il calendario americano di Sergio Marchionne è tutta una marcia finanziaria a tappe forzate, per le quali il manager ha presumibilmente ritenuto di dover anche rinviare il lancio di alcuni modelli del gruppo Fiat, perdendo quote di mercato in Italia e in Europa ma così risparmiando sugli investimenti.
Quei 7,53 miliardi di dollari
Una marcia comunque sorprendente, considerando che restituirà i prestiti dei governi federale statunitense e canadese per 7,53 miliardi di dollari entro questo trimestre, evento finora previsto solo a partire dal 2013.
Nel calendario americano di Marchionne, l’annuncio di volere acquistare un altro 16% di Chrysler (per arrivare al 46% entro giugno) è stato anch’esso anticipato rispetto alla trimestrale di domani, perché altrimenti il prezzo sarebbe aumentato rispetto a quell’1,27 miliardi di dollari indicato una decina di giorni fa. Da domani, Marchionne e il suo staff faranno il porta a porta per tutto maggio con i potenziali investitori per rinegoziare il vecchio debito governativo e spuntare tassi migliori. Fra gli analisti c’è chi ipotizza un taglio della rata annuale di almeno 270 milioni di dollari.
Con il 46% di Chrysler in mano, Marchionne di fatto gestirà completamente l’azienda di Auburn Hills, sia dal punto di vista operativo che dal punto di vista del bilancio, dato che a quel punto i conti della controllata saranno consolidati in Fiat.
L’incontro con Geithner
Giovedì scorso, ricevendo per la prima volta a Detroit il segretario al Tesoro statunitense Timothy Geithner nella fabbrica di Jefferson North, Marchionne ha detto che una volta ripagato il debito ai governi, l’immagine del marchio sarà più forte. La Ford, unica delle tre Big o ex Big a non aver preso nemmeno un dollaro dalla Casa Bianca e a uscire da sola dalla crisi, ha giocato molto su questo aspetto per tutto il 2010, in un paese dove i socialisti non esistono e dove l’uso dei soldi dei contribuenti a favore di un’azienda è storicamente malvisto. Nota a margine, al contrario di quanto avvenuto in una visita a Detroit del presidente Barack Obama, Geithner non ha parlato con i giornalisti dentro la fabbrica e non ha fatto spot per nessuno, Marchionne compreso.
La prossima tappa del manager dovrebbe scattare entro ottobre, al più tardi novembre. Per ottenere l’ultimo 5% che porterà la Fiat alla maggioranza assoluta di Chrysler (una formalità, operativamente parlando), l’intesa del 2009 con Casa Bianca e Tesoro prevede che il gruppo di Auburn Hills avvii la produzione di un modello a basso impatto ambientale, con consumi non superiori ai 40 chilometri a gallone (16 chilometri al litro). Quasi certamente sarà un modello Dodge di segmento C (quello di una Fiat Bravo), da presentare al Salone di Detroit nel gennaio 2012 e da lì commercializzato negli Stati Uniti.
Il 2012 è a questo punto un vero anno chiave, anche per le relazioni con Fiat. Entro marzo, perché la vita di un’azienda è fatta essenzialmente di trimestri, Marchionne dovrebbe riportare in borsa la Chrysler. A Wall Street, naturalmente, mentre Fiat resterà a Milano. Cosa che non ha senso, ha già anticipato il manager, preludendo allo spostamento della sede legale del gruppo in America, non nel Michigan ma nel Delaware per convenienze fiscali. Quando ci sarà la fusione FiatChrsyler o ChryslerFiat senza più trattino? Sul calendario di Marchionne ufficialmente non c’è data, che potrebbe essere segnata anche nel 2013. La fusione comporterà comunque una diluizione della quota degli Agnelli-Elkann, come ha ribadito giovedì il presidente della Fiat John Elkann.
Fin qui il calendario americano. Quello italiano ha giorni a breve più terribili per i lavoratori, perché domani e martedì ci sarà il referendum alla Bertone sulle nuove condizioni di lavori imposte dall’azienda. Sul tavolo, ci sono anche 500.000 euro di investimento. Marchionne ha già minacciato di portarli altrove se le cose non andranno come desidera, restando vero che possono tornare sempre preziosi per la sua marcia finanziaria di cui sopra.
Ma i calendari hanno un inizio e una fine e soprattutto non riescono a tener conto di tutti gli eventi esterni. Agli aztechi, per esempio, dopo una conteggio complicato dei mesi, avanzavano cinque giorni nei quali fermavano la loro attività perché considerati nefasti. La Chrysler di Marchionne potrebbe incappare in giorni (se non nefasti) grigi, sull’onda dell’aumento del prezzo del petrolio. Il Dipartimento dell’Energia, lo stesso che dovrebbe erogare alla Chrysler un altro prestito agevolato di 3,5 miliardi di dollari per la produzione di motori a basso impatto ambientale (la richiesta è ferma a Washington dal 2009, aspettando che l’azienda uscisse dalla bancarotta, e infatti ad Auburn Hills sperando di vedere arrivare i soldi entro giugno), ha reso noto che in marzo i consumi di benzina nel paese sono scesi dell’1,6% rispetto allo stesso periodo del 2010. Troppo cara.
La Cina beve
I prezzi alla pompa sono saliti grazie alle speculazioni innescate dalle turbolenze politiche nel Mediterraneo e in Medioriente e complicate dall’emergenza nucleare giapponese. Le prospettive sono negative fra gli analisti, mentre già adesso i prezzi sono al massimo storico insieme a quelli dell’estate 2008. Se non bastasse l’incertezza politica in alcune aree di produzione del greggio, c’è poi la crescita asiatica a trainare in su il prezzo. Più richiesta, più caro-petrolio: secondo Barclays Capital, la Cina ha accresciuto la sua richiesta di greggio sempre nel mese di marzo di 874.000 barili, cioè il 10,6% in più del marzo 2010.
La Chrysler di Marchionne ha aumentato le vendite di tutti i suoi marchi nel primo trimestre (Chrysler, Dodge, Jeep, Ram), ma in listino ha solo modelli che consumano parecchio. Il lancio sul mercato Usa della Fiat 500 costruita in Messico a Toluca è l’eccezione che conferma la regola. Che succederà ai conti americani di Marchionne se sul mercato di riferimento il prezzo della benzina salirà ancora e i consumatori alzeranno sempre di più il piede dal pedale dell’acceleratore?
Diversi analisti continuano a mantenere verso la Chrysler di Marchionne, oltre all’apprezzamento per le sue capacità finanziarie, un certo scetticismo sugli obiettivi, che sono spettacolari (e discutibili, in quanto appesi al solo mercato) quanto quelli annunciati per il gruppo Fiat. La Jeep, per esempio, il marchio più forte e più globale di Auburn Hills, dovrebbe vendere 800.000 unità entro il 2014, dalle 420.000 dell’anno scorso. Un raddoppio. Ma tutto questo senza essere produttivamente presente come Chrysler su mercati chiave come Cina e India.
Il caso Lancia-Chrysler
È lo stesso, cruciale problema della Fiat, che compensa molto con i profitti stellari fatti in Brasile ma è per esempio a zero in Russia, dopo che il partner Sollers ha preferito accordarsi con la Ford. E l’Europa resta un punto interrogativo. Se Jeep ha margini di crescita, il marchio Chrysler è scomparso (a eccezione della Gran Bretagna), affidando al marchio Lancia la vendita di tutti i modelli co-prodotti. Ma rispolverare un nome nobile come Flavia per un’auto completamente americana, come si è visto all’ultimo Salone di Ginevra nella ri-marchiata Chrysler 200, è un rischio alto. Quasi da calendario azteco.
da “il manifesto” del 1 maggio 2011

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