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Lavoratori precari e soprattutto manuali. La vera gioventù

Se ne accorgono solo ora. E si preoccupano. I sociologi da editoriale che da decenni ci spiegano la “cetomedizzazione” e la “scomparsa della casse operaia” adesso fanno dietrofront con l’aria di sempre, quella di chi “la sa lunga”. Vuoi vedere che tra qualche mese anche i negriani di casa nostra faranno una scoperta molto simile, ma con una parola ben studiata che farà sembrare merito loro anche questo? Accettiamo scommesse.

Ma intanto guardiamo i dati di Ilvo Diamanti, front man di Repubblica in materia di evoluzione sociale. «I dati dell’Osservatorio di Demos-Coop, al proposito, sono espliciti. Anzitutto, la classe sociale (percepita dagli italiani). Per la prima volta, da quando conduciamo i sondaggi dell’Osservatorio, la piramide si rovescia completamente. Senza “mediazioni”. Infatti, le persone che si collocano nella “classe operaia” oppure fra i “ceti popolari” superano, per estensione, quelle che si sentono “ceto medio”».

In dettaglio (ma pubblichiamo anche le tabelle): « Il 48% del campione nazionale dice di sentirsi “classe operaia” (39%) oppure “popolare” (9%). Il 43%: “ceto medio”. Il 6%, infine, si definisce “borghesia” o “classe dirigente”. È l’unico settore sociale stabile. (Le classi privilegiate, d’altronde, sentono la crisi meno delle altre. Anche se la temono.) Invece, il peso del “ceto medio” è sceso di 5 punti negli ultimi tre anni e di 10 negli ultimi cinque. Simmetricamente, l’ampiezza di coloro che si sentono “classe operaia” oppure “popolare” è cresciuta di 3 punti negli ultimi tre anni e di 9 negli ultimi 5. Prima causa: lo slittamento dei lavoratori autonomi (artigiani e commercianti). Metà di essi oggi si posiziona nei ceti popolari. Lo stesso avviene per circa un terzo di impiegati e tecnici».

 

Intanto una notazione metodologca: qui si misura l’autopercezione degli intervistati, non una condizione obiettivamente quantificata o quantificabile (livelli di reddito, spese fisse, servizi utilizzati, consumi fondamentali e/o “di lusso”, ecc). Sui mercati si direbbe il sentiment, qualcosa che tiene conto dei dati ma che in qualche modo anticipa un’evoluzione. Insomma, un dato utile per far politica più che per fare “scienza”.

Ma proprio questo è il problema: la crisi fa smottare convinzioni consolidate, anche nei livelli meno privilegiati del lavoro dipendente. Nei decenni che ci siamo lasciati definitivamente alle spalle, bastava avere un lavoro stabile, ancorché poco pagato, per esser classificati e “riconoscersi” anche soggettivamente nella “classe media”. Operai e impiegati con un mutuo da pagare e perciò “accolti” in quell’insieme informe ma psicologicamente appagante dei “proprietari” di qualcosa. Una condizione bastarda, più fittizia che reale (se paghi il mutuo il proprietario è la banca che detiene l’ipoteca), che però ti faceva sentire come lontanissima la condizione “proletaria” (letteralmente: quelli che possiedono soltanto figli). Se ci ricordiamo la frase di chiusura de Il Manifesto del Partito Comunista (“avete da perdere solo le vostre catene”), possiamo capire come la condizione di “proprietari” agisca come potente fattore di identificazione sociale con la classe dirigente, i ricchi veri. E quindi come fattore socialmente “calmante”. Come se dicessero a ognuno di noi – con i fatti oltre che con l’imbonimento dei sociologi del senso comune – “hai poco, è vero, ma vedi che comunque sei salito di categoria rispetto ai tuoi genitori”.

Il perdurare della crisi e soprattutto la caduta dei redditi innescata dai processi di precarizzazione hanno rovesciato i pochissimi anni questa situazione socialmente “moderata”. E la realtà costringe ognuno a rifarsi i conti in tasca, a mutare quindi il giudizio sulla propria condizione e la percezione di sé nella scala sociale. “Ci state rubando il futuro”, hanno cominciato giustamente a gridare nelle piazze le giovani generazioni che si sentono stringere nella tenaglia mentre i loro genitori fanno sempre più fatica a mantenere un posto di lavoro “sicuro”, il cui stipendio – comunque – perde lentamente potere d’acquisto.

Non stupisce dunque che lo stesso Diamanti sintetizzi questa nuova autopercezione sociale in questo modo: “C’è insoddisfazione in Italia. Un’insoddisfazione sorda ma non più muta. Trapela da mille segnali, piccoli e grandi. Le proteste sociali che si susseguono, da mesi. In modo ostinato e insistente. Nelle piazze, nelle scuole, nei luoghi di lavoro. L’abbiamo riconosciuta, da ultimo, nel voto amministrativo. Che ha rivelato cambiamenti profondi. E inattesi. Dietro a tanta insoddisfazione si colgono tanti motivi, di natura diversa. Uno, però, risulta evidente. L’ascensore sociale è in discesa, da troppo tempo”. La generazione di chi ha oggi tra i 20 e i 40 anni è la prima nella storia degli ultimi 200 anni che può esser certa del fatto che starà peggio rispetto a chi l’ha preceduta; senza che ci sia nemmeno stata una guerra sul proprio territorio.

Insoddisfazione verso l’economia (“nel 2004 coinvolgeva il 59% della popolazione, oggi il 71%”). e verso il lavoro (“nel 2004 era espressa dal 60% della popolazione, oggi inquieta il 75%”). E che contagia ormai anche i livelli medio-alti della scala sociale: “Una quota ampia di lavoratori autonomi (20%) ma soprattutto di liberi professionisti (44%) oggi definisce la propria condizione di lavoro “precaria”.

Il 17% degli intervistati dichiara di aver lavorato in modo temporaneo, per una parte più o meno ampia dell’anno. Si tratta dei giovani, soprattutto. E degli studenti (28%). Il 63% del campione ritiene che i giovani avranno un futuro peggiore di quello dei genitori. E il 56% ritiene che i giovani, per avere speranza di carriera, se ne debbano andare all’estero.
Una via d’uscita che riguarda ovviamente i giovani con una preparazione culturale di alto livello, mentre per quelle aree sociali dove è a lungo prevalsa l’idea del “laurà” il prima possibile, per fare i soldi il prima possibile, ora si tratta di scoprire la durezza del lavoro manuale a vita.

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La recente ricerca del Censis in proposito certifica quella che era un’impressione abbastanza forte: in Italia la media dei quindici-ventiquattrenni occupati come artigiani e operai è superiore a quella europea. E il nostro paese ha il record negativo degli under 35 con incarichi dirigenziali.

In nessuno degli altri grandi paesi europei i giovani svolgono così spesso lavori manuali. Il 42,5% dei lavoratori tra 15 e 24 anni e il 36% di quelli tra 25 e 34 fa un’attività artigianale, operaia o non qualificata. Più di quattro punti sopra la media dell’Unione Europea.
Ma la crisi abbatte il numero assoluto degli occupati in questi mestieri. Diminuiscono del 25,8% i giovani occupati come operai, del 19,2% le professioni tecniche (“che pure sono le più richieste dal mercato”, osserva il Censis), addirittura del 34,9% i funzionari e i professionisti.
Così oggi l’Italia ha il record negativo di under 35 con incarichi dirigenziali, che riguardano il 14,6% dei giovani e il 3,5% dei giovanissimi (la media Ue è del 24,2% e del 7,0%).
Dati che sbugiardano completamente una classe dirigente cinica e stupida, che ha spesso usato – monopolizzando le tv e gli altri media – un luogo comune da bar dello sport: “ragazzi vogliono la pappa pronta, il posto fisso e non gli piace di sporcarsi le mani sul lavoro”. Invece “l’Italia è il primo dei grandi paesi europei per presenza giovanile nell’industria, e in particolare nel manifatturiero e il settore assorbe complessivamente il 31,6% degli occupati di età compresa tra 15 e 24 anni e il 30,8% di quelli tra 25 e 39 anni”. Altro che “lavoro cognitivo”, dunque la fabbrica – a sua volta in crisi – è diventata quasi un miraggio salvifico.

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