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La festa metalmeccanica di Bologna

A girare per la platea si impara molto. È la gente che ha mandato su Pisapia, De Magistris e Zedda, che ha imposto e vinto i referendum. Gente che partecipa per convinzione e scelta, che non guarda la tv e basta. Ma che seleziona e riconosce i «suoi» anche sullo schermo. Mentre attende di salire sul palco travestito da Dante in versione hard, nella zona stampa del backstage, Vauro viene collegato con Otto e mezzo e le canta alla sua maniera a un Bonanni apparentemente dimentico di fare – come professione ufficiale – il sindacalista. Questa gente capisce, si avvicina, tifa, suggerisce anche se non sente quel che dice il cislino (non è un segreto…), applaude e sostiene «il cinghialone», lo ringrazia perché dice forte quel che loro pensano.

È la gente che tributa un’ovazione a Maurizia Russo Spena, madre e precaria che ha inchiodato Brunetta alla sua pochezza umana, scoprendo con orgoglio che ci sono dei figli che non chiedono una raccomandazione a un padre ex parlamentare (e quindi anche un padre che non spedisce raccomandazioni per i figli), e che parlano chiaro, senza subire il ricatto della condizione precaria.

Arrivano di continuo, si alternano, ritornano. Vogliono ridere del potere, sono già liberi dalla soggezione al potente. Hanno stampati in mente i passaggi più insopportabili di tante intercettazioni o dichiarazioni pubbliche di potenti che ridono di loro, pensano a come arricchirsi se capita una catastrofe naturale, che consigliano alle ragazze di farsi «un fidanzato ricco», che li considerano – capitalisticamente – «parco buoi». Quindi ridono di ogni imitazione, avrebbero preferito vedere dal vivo Corrado Guzzanti o Crozza-Marchionne, prendono anche l’intervento di Travaglio come un intermezzo comico. Si scatenano per Benigni che corre come un furetto su e giù per il palco, ma anche per un Daniele Silvestri misurato e ironico, ma che non la manda a dire con i suoi testi. Difficile che le telecamere mostrino attempati delegati di fabbrica in maglietta rossa impegnati nel servizio d’ordine e saltellanti sull’onda dei Subsonica di Liberi tutti; ma succede anche questo. C’è una generazione rock con i capelli bianchi, non lo sapevate?

Non sono «le masse» di un tempo, piene di fede in un leader e una prospettiva dall’orizzonte lontano. Giovani o di mezza età, pensionati o studenti, hanno accumulato già troppe delusioni per credere a un partito, qualunque siano le promesse che questo può fare. Sono la testa di ponte di quei milioni di persone che guardano «la politica di palazzo» con fredda diffidenza e attenta consapevolezza della propria condizione di vita. Non attendono «il sol dell’avvenir», vorrebbero cambiare molto qui e ora. Perché la vita è una, sacrifici e risultati ci stanno dentro entrambi.

Siamo a Bologna, in piena Emilia rossa. Ed è un reggiano docg come Maurizio Landini a spazzar via ogni nostalgia per i tempi in cui, quindicenne saldatore apprendista in una «cooperativa rossa», alle richieste di avere condizioni di lavoro migliori si sentiva rispondere con un pistolotto politico cui rispondeva: «Senti, tu sei un dirigente e hai in tasca la stessa tessera del partito che ho io; ma sento freddo lo stesso». Qui è il cuore della questione, anche per tutta questa platea fisica e televisiva. Le condizioni di lavoro non ammettono giri di parole, rinvii a tempi migliori, sacrifici ora in cambio di riscatto poi. Un sindacato o sta dentro questa dimensione o è fuffa da cui prendere le distanze.

Se la Fiom, in questo deserto di valori e orizzonti, è diventata il perno di un’opposizione sociale così vasta, il piccolo polmone da cui è cominciato a soffiare «il vento» che sta scuotendo gli equilibri di potere e rovesciando la piovra berlusconiana, è perché fin qui ha fatto quel che dice e ha detto quel che poi ha fatto. Si mette alla prova («sempre, e senza rete», ricorda Evaristo), e fornisce una rappresentanza che non è sostitutiva della partecipazione individuale. Anzi la sollecita. Questa folla ha misurato anche la Fiom, l’ha soppesata nello scontro con Marchionne, quando tutti – ma proprio tutti, tranne quelli che non hanno spazio nei media – chiedevano di piegarsi al ricatto. Il «grazie»che tutti ripetono al microfono, anche quello, è di fatto a nome di tutti.

 

da “il manifesto” del 19 giugno 2011

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