Menu

Fiat e Fincantieri. Oltre lo sciopero e il diritto a manifestare

 Il principale è: come si fa a cambiare la situazione, a gestire il conflitto sia sindacale che sociale o politico, in una situazione in cui “il potere” (sia esso l’azienda, il governo di destra o quello che lo sostituirà – non necessariamente di centrosinistra, ci sentiamo di dire) afferma di non voler neppure prendere in considerazione l’esistenza di interessi, opinioni, istanze?

Non abbiamo la soluzione, stiamo evidenziando il nodo essenziale contro cui si infrange il vecchio modo di fare sindacato e/o politica.

La “lettera della Bce” ha chiarito che l’ambito puramente nazionale dell’azione (sindacale e politica, di nuovo) sottosta a poteri e decisioni che vanno al di là del controllo locale. La “dottrina Marchionne”, che molte imprese – uscendo da Confindustria – sembrano intenzionate a seguire chiarisce a sua volta che il posto di lavoro è sottratto alla normale “dialettica tra le parti” e diventa uno spazio sottoposto a un dominio “pieno e incontrollato” da parte del padrone.

In questo modo viene interotta la “mediazione sociale” tra governo (del paese o dell’impresa) con la popolazione (i lavoratori). Sindacato e partiti o movimenti politici non possono più “concorrere” a determinare le scelte essenziali di un paese (la politica economica e di bilancio, la partecipazione alla guerra). Devono accettarle, così come il governo nazionale (quasi un’amministrazione regionale o provinciale, ormai) accetta ed applica le “rirorme” suggerite dall’altro (Bce, Ue, Fmi).

Chi non accetta un ruolo passivo viene messo nella condizione di tacere o “infrangere la legge”. Che nel frattempo viene modificata ad hoc, senza troppi passaggi parlamentari (l’ordinanza di Alemanno ci sembra destinata a diventare un format ripetibile all’infinito). Non sembra un caso che i giornali mainstream abbiano preferito parlare, piutostoo che delle fabbriche o dei cantieri che chiudono, del discorso della Camusso (che ha parlato davanti a una piazza che si svuotava, dopo qualche fischio) o addirittura della pseudo-“aggressione” a Vendola. Un segnale chiaro, ci sembra.

E’ comprensibile che ogni soggetto che era sufficientemente “integrato” nel sistema di relazioni (industriali o politiche) precedente guardi con nostalgia alla vecchia condizione e cerchi di ripristinarne la vigenza. Ma non appare realistico o possibile che questo accada. Il Pd (e Vendola) non ha detto una parola né su Marchionne né sul divieto di manifestare. Di Pietro sìè immediatamente calato nei panni del celerino mazziere, mentre con l’altra mano – senza alcuna vergogna – continuava a segnalare “solidarietà ai lavoratori”.

E’ comprensibile, ripetiamo. Ma prima si guarda in faccia la nuova realtà, prima si troveranno le giuste contrarie per gestire il conflitto sociale senza le mani legate dietro la schiena e una pietra ai piedi. Il dissesto industriale del paese marcia a tappe forzate. Ogni giorno perso c sono meno stabilimeti in funzione. Prima di ritrovarci in un deserto percorso da bande alla ricerca di un reddito qualsiasi, le forze che hanno praticato in varie forme il conflitto devono cominciare a inquadrare il “nuovo mondo” in cui si muovono.

 

 

*****

Francesco Piccioni
Industria In piazza e sul palco anche gli operai della Irisbus, la fabbrica di autobus che Marchionne vuole chiudere, in sciopero da 106 giorni. Delegati sul palco. Una scelta per rendere visibili le decine di situazioni ormai al limite
Testimoni diretti del degrado
Ancona chiede il ritiro della firma Cgil all’accordo del «28 giugno». Ovazione in piazza

ROMA
A fare l’elenco c’è da mettersi paura. La Fiom ha scelto di dare il palco soltanto ai delegati dei vari stabilimenti, mentre gli «ospiti politici» restano nel parterre. E la testimonianza che arriva da ogni sito produttivo aggiunge una tessera al mosaico dello smantellamento industriale di questo paese.
Qualcosa di tangibile, al punto che la parola «disperazione» fa capolino nell’intervento dell’operaia Irisbus di Grottaminarda. La Fiat ci faceva autobus che ora vuol produrre altrove (Francia, Romania); una situazione paradossale, mentre la Ue – ricordano tutti – sta per sanzionare l’Italia che ha un parco autobus troppo obsoleto e inquinante. «Oggi sono 106 giorni che siamo in sciopero, ma non ci interessa stabilire il record, vogliamo solo difendere i posti di lavoro; dobbiamo unire le vertenze per bloccare tutto ciò. Quando verrà Napolitano a inaugurare la linea della Panda dovremo essere là per dirgli che deve venire dove gli stabilimenti li stanno chiudendo».
Nessuno riesce a passare sotto silenzio quel «scioperare e protestare non serve a niente« pronunciato da Marchionne solo tre giorni fa. «Uno che guadagna 400 volte il nostro stipendio e si definisce un metalmeccanico, non potrà mai capire con quale testa e quanto cuore noi stiamo qui a lottare». La distanza con quelli che (solo in tv) chiama «collaboratori» non potrebbe essere maggiore.
Da Mirafiori giungono altre voci. «Sotto attacco non ci sono solo le Carrozzerie – dove Marchionne ha voluto imporre un referendum stile Pomigliano, vincendolo per il rotto della cuffia e solo grazie a una pattuglia di ‘capi’, ndr – Lì si è passati in cinque anni dal produrre 218.000 vetture/anno alle attuali 50.000. Con Idea e Musa che stanno per uscire di produzione. Ma in quei pochi giorni che si lavora i ritmi sono insostenibili». Ci sono migliaia di addetti che vedono l’azienda guardare all’America più che all’Italia. Qui ci sono le presse, Powertrain, Enti centrali, Stampi, Sperimentale, per un totale di 14.824 lavoratori». Senza garanzie su modelli futuri da costruire; solo la «promessa di un piccolo suv, tra due anni».
Da Pomigliano arrivano notizie allucinanti. Lavoratori che si fanno male, anche seriamente, ma vengono «invitati» a non denunciare la cosa, pena la mancata assunzione nella futura newco. Gli iscritti Fiom, naturalmente, vengono discriminati persino nella chiamata al lavoro tra un periodo di cassa e l’altro. Il Sud racconta solo storie difficili. Come a Foggia o a Melfi, «dove si entra in fabbrica già con la tessera sindacale in tasca e la Uil la fa da padrona». Lì essere Fiom diventa «un motivo d’orgoglio, siamo ancora più credibili per i lavoratori».
Infiamma la piazza il cantierista di Ancona che senza alcuna soggezione invita il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso, presente in quel momento a lato del palco, a «ritirare la firma dall’accordo del 28 giugno». In fondo chi sta lì sotto è arrivato qui «facendo comunque un corteo», anche se più breve del solito, nonostante il divieto della questura. Ricorda come il suo impianto abbia rifiutato di «prendere una nave» (fabbricarla, ndr) «al posto di un cantiere messo peggio e che l’azienda voleva chiudere». Solidarietà sulle cose, rimettendoci di persona, non a chiacchiere. E che è costata una rottura nelle trattative con Bono (l’a.d. di Fincantieri), al termine delle quali «ci hanno chiusi i cancelli del cantiere in faccia». L’applauso scatta quando ricorda come sia stato risolto il problema: «li abbiamo sfondati e abbiamo occupato».
Tocca a Maurizio Landini, ovviamente, concludere il ragionare collettivo tirando le somme delle vertenze in campo e di come andare avanti. Alla Camusso, dopo, toccherà garantire l’appoggio pieno di tutta la Cgil a una piazza (se non a una categoria) che rimane diffidente e sente bruciare la ferita del «28 giugno».
Su Fincantieri Landini ricorda che si è riusciti a far ritirare il piano industriale che prevedeva 2.500 licenziamenti e come, da allora, l’azienda stia tentando la «tattica Marchionne», cercando di mettere un cantiere contro l’altro. Senza riuscirci, per ora, ma creando problemi e tensioni.
Ma, come per Fiat, «ci vogliono nuovi prodotti», «smettere di fare solo navi da crociera o da guerra», bosogna farne da trasporto. Ritorna il tema della «mobilità collettiva e sostenibile», cavallo di battaglia per illustrare concretamente la necessità di una politica industriale mirata, che «il privato» non ha alcuna intenzione o necessità di affrontare. Ricorda Obama che ha regalato Chrysler a Marchionne, ma pretendendo nuovi modelli meno inquinanti. Non «faccia lei», insomma. E’ «una nuova forma di intervento pubblico», certo.
E quindi, sì, «occorre un nuovo governo», ma «anche al prossimo diciamo già che vogliamo risposte chiare sulle proposte che facciamo». A cominciare dall’«abolizione dell’art. 8 della manovra», che legalizza rapporti di lavoro fuori dai contratti e persino dalle leggi, risultato per cui la Fiom «non esclude nessun tipo di intervento, fino al referendum». Un’«indicazione a chi fa impresa di aumentare lo sfruttamento dei lavoratori, non di fare innovazione». Non sarà facile invertire una tendenza al «sottosviluppo» in piena crisi globale; ma questo è il problema di tutti i paesi, non solo dell’Italia o della Fiom.

*****

- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO

Ultima modifica: stampa

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *