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Omsa. Boicottare chi licenzia e delocalizza

«Vergognatevi, e ricordate che i figli di quelle donne che devono andare a scuola, mangiare, crescere potevano essere figli vostri e comunque sono figli di questa Italia… Purtroppo». Il commento compare sulla pagina Facebook della produttrice di calze Omsa, sotto le foto della collezione 2011/2012. E la bellezza di altri 2500 sono dello stesso tono. La Omsa è stata «bombardata» da messaggi di protesta a partire dal 30 dicembre, data in cui il Popolo Viola, supportato poi dall’associazione Articolo 21, aveva chiesto ai propri contatti web di scrivere direttamente alla multinazionale: il 27, infatti, l’azienda aveva annunciato via fax il licenziamento delle sue 240 operaie faentine.  E la bellezza di altri 2500 sono dello stesso tono. Ne riferisce ampiamente la newsletter Controlacrisi.org.

La Omsa è stata «bombardata» da messaggi di protesta a partire dal 30 dicembre, data in cui il Popolo Viola, supportato poi dall’associazione Articolo 21, aveva chiesto ai propri contatti web di scrivere direttamente alla multinazionale: il 27, infatti, l’azienda aveva annunciato via fax il licenziamento delle sue 240 operaie faentine. Questa è solo una parte della contestazione, il resto – e con numeri ben più alti – si sviluppa sempre su Facebook , ma su un’altra pagina, l’evento creato da Massimo Malerba di Lettera Viola : «Mai più Omsa». «Compravo alcuni loro prodotti, non comprerò mai più. A costo di camminare senza calze :P», scrive Chiara sul wall . E Adriana: «Mai più calze Omsa: solidali con le operaie!». Il boicottaggio, subito rilanciato da siti web, tv e giornali, sta registrando un enorme successo: sin dall’inizio le adesioni si sono moltiplicate, veloci come il contatore di Telethon , e ieri alle 21 erano oltre 75 mila, e più di 600 mila gli invitati: magari non tutti daranno l’ok, ma è comunque una dilagante pubblicità negativa. La protesta contro la Omsa si era avviata più di un anno fa, perché è già da tempo che l’azienda ha comunicato la volontà di chiudere lo stabilimento faentino, aperto nel lontano 1941, per concentrare le proprie produzioni nelle città serbe di Valievo e Loznica. Da due anni le 240 lavoratrici sono in cassa integrazione, e al momento – come spiega Samuela Meci, operaia e sindacalista Filctem Cgil – «lavorano a rotazione solo 30 persone in turni di 15 Antonio Sciotto
Questa è solo una parte della contestazione, il resto – e con numeri ben più alti – si sviluppa sempre su Facebook, ma su un’altra pagina, l’evento creato da Massimo Malerba di Lettera Viola: «Mai più Omsa». «Compravo alcuni loro prodotti, non comprerò mai più. A costo di camminare senza calze :P», scrive Chiara sul wall. E Adriana: «Mai più calze Omsa: solidali con le operaie!». Il boicottaggio, subito rilanciato da siti web, tv e giornali, sta registrando un enorme successo: sin dall’inizio le adesioni si sono moltiplicate, veloci come il contatore di Telethon, e ieri alle 21 erano oltre 75 mila, e più di 600 mila gli invitati: magari non tutti daranno l’ok, ma è comunque una dilagante pubblicità negativa.  
La protesta contro la Omsa si era avviata più di un anno fa, perché è già da tempo che l’azienda ha comunicato la volontà di chiudere lo stabilimento faentino, aperto nel lontano 1941, per concentrare le proprie produzioni nelle città serbe di Valievo e Loznica. Da due anni le 240 lavoratrici sono in cassa integrazione, e al momento – come spiega Samuela Meci, operaia e sindacalista Filctem Cgil – «lavorano a rotazione solo 30 persone in turni di 15 giorni: la proprietà ha già portato via tutti i macchinari, ma ne ha dovuto lasciare giusto quattro o cinque per le forti pressioni contro la chiusura».  
Il costo del lavoro è ovviamente molto più basso in Serbia, ma la scelta, come spiega il gruppo Golden Lady (proprietario della fabbrica e dello stesso marchio Omsa) sarebbe anche di carattere commerciale: «Allargarsi verso i paesi dell’Est significa da una parte portare all’interno della propria organizzazione produttiva lavorazioni prima effettuate da terzi, dall’altra aumentare le esportazioni verso i Balcani grazie agli accordi di libero scambio tra la Serbia e la Russia, che consentono l’abbattimento dei dazi doganali».  
Sempre secondo l’azienda, «la decisione di aprire gli stabilimenti serbi, presa già nel 2001, non ha minimamente influito sui livelli di produzione e di occupazione dell’impianto di Faenza»; piuttosto, è sempre la versione della Golden Lady, «la crisi finanziaria internazionale che si è manifestata nell’ottobre 2008 e il conseguente apprezzamento dell’euro hanno provocato difficoltà nelle esportazioni, con un calo di fatturato complessivo di circa 66 milioni per l’intero gruppo». Da qui la decisione di «riorganizzare» le attività europee (quelle dei paesi più ricchi): non solo quindi Faenza, ma sono stati dismessi anche gli stabilimenti in Germania, Francia e Spagna, spiega il gruppo, mentre dall’altro lato a Mantova è stato creato un unico polo logistico-distributivo centralizzato per abbassare i costi verso il cliente finale. Insomma, il mercato decide tutto.  
Erano state le stesse operaie, supportate da Cgil, Cisl e Uil, a lanciare l’anno scorso il primo boicottaggio dei prodotti Omsa e Golden Lady: «Ci sono persone che magari non scenderanno mai in piazza con te – spiega la dipendente Omsa – Però se si impegnano a non comprare un prodotto fanno comunque pressione sull’azienda. Alcuni lavoratori Golden Lady di altri stabilimenti italiani ci hanno criticato, dicendo che così danneggiamo loro: ma devono accorgersi che il gruppo via via sta lasciando l’Italia, e anche il loro posto è a rischio». A fine novembre Golden Lady ha chiuso un altro sito, con 400 operai, a Gissi (Chieti).  
Nel frattempo in questi mesi sono continuate le trattative locali e soprattutto nazionali, con il ministero dello Sviluppo, per una possibile riconversione. I sindacalisti erano arrivati a sedersi perfino davanti al nuovo ministro, Corrado Passera. Ma poi la doccia gelata: il 27 dicembre, proprio in mezzo alle festività natalizie, l’azienda comunica via fax che procederà al licenziamento di tutte le lavoratrici, senza attendere ulteriori negoziati.
Ieri c’è stato un altro incontro locale, a cui ha partecipato anche un funzionario del ministero, che si è impegnato a convocare il gruppo per chiedere di ritirare i licenziamenti. Ed è sempre avvolto nella nebbia il misterioso identikit di un possibile compratore, ventilato ma mai uscito allo scoperto. «Già l’anno scorso si era parlato di Ikea – conclude sconsolata Meci – E si è rivelata una balla. A questo punto siamo scoraggiate: il 14 marzo scadono i due anni di cassa e per ora abbiamo di fronte solo il licenziamento. Chiediamo a Passera di intervenire».

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