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L’Europa disoccupata

Il “miracolo tedesco”, per esempio, è assai meno miracoloso se lo si guarda dal di dentro. Mentre ai quotidiani di regime piace fare soltanto ideologia. Liberista, naturalmente, che guai a chiamarla tale. Prendiamo il caso dei licenziamenti: in Germania non c’è “licenziabilità facile”, anche se non c’è nulla di simile all’art. 18. Ma l’esempio tedesco va bene solo in alcuni casi…

Anche sull’occupazione, le cifre astratte dicono che in Deutschland c’è meno gente senza lavoro. Le cifre concrete spiegano che nel 1991, all’indomani della riunificazione tedesca, gli occupati a tempo pieno (e salario corrispondente) erano il 75% della platea; oggi sono soltanto il 58. Il “miracolo tedesco”, dunque, è fatto tramite riduzione d’orario, precarietà, ecc. La vera differenza è che lì c’è meno lavoro nero. Ma di questo non conviene parlare, sui grandi media…

 

Disoccupati record. Giovani al 31%

Oltre 2,2 milioni di persone non hanno un impiego. Senza la cassa integrazione sarebbero già 3 milioni. Perdono il posto soprattutto i maschi. I contratti precari hanno peggiorato la situazione tra i 15 e i 24 anni
Francesco Piccioni
Non va. E andrà peggio. L’occupazione in Europa è inchiodata, e a pagare il prezzo più alto sono soprattutto gli uomini e i giovani. La fotografia rilasciata dall’Eurostat – e dall’Istat per la parte che riguarda il nostro paese – è assolutamente impietosa. E i numeri vanno letti in controluce, per capire la tendenza reale. Partiamo dal quadro europeo. Il tasso di disoccupazione ufficiale, in tutto il 2011, è salito dell’0,4% al livello della zona euro; così come nell’intera Unione a 27 paesi. Ma la distribuzione non è affatto omogenea. In Germania (vedi l’articolo a parte) tutto sembra esser rimasto stabile, con un tasso di disoccupazione di appena il 5,5%. Così come in Francia (9,9). Le cadute più disastrose vengono invece registrate – non a caso – in Grecia (dove si passa dal 13,9 al 19,3% di disoccupati), Cipro (dal 6,1 al 9,3) e Spagna, dove si registra un drammatico 22,9% di senza lavoro.
L’Italia – record di senza lavoro dal 2004 a oggi – è un caso a parte e richiede un briciolo di «analisi». Il dato più eclatante riguarda la fascia d’età dai 15 ai 24 anni (studenti esclusi, ovviamente), dove ben 31 ragazzi su cento risultano disoccupati. Qui ci sarebbe addirittura un lievissimo miglioramento (-0,2), ma sono in aumento gli «scoraggiati», che il lavoro non lo cercano neppure. Secondo le elaborazioni della Cgia di Mestre, comunque, il tasso «reale» (tenendo conto di sfiduciati, ecc) sarebbe del 38,7%.
Tutta la retorica di governo e dei partiti dovrebbe sfasciarsi dalla vergogna, davanti a questi numeri, perché è evidente che più precarietà («meno lacci e lacciuoli») non produce affatto più occupazione, ma solo minori salari e, quindi, meno consumi-crescita-nuova occupazione.
Anche i dati provenienti dalle grandi imprese – come fa notare Fulvio Fammoni, membro della segreteria nazionale Cgil – contribuiscono a smontare falsi ideologici sull’art. 18 e dintorni: qui «i licenziamenti sono cresciuti in 6 anni del 35%». Facile la conclusione: «qualcuno può ancora sostenere che c’è qualche problema di flessibilità in uscita?».
Ma sono i dati assoluti a smontare molti teoremi. Gli occupati, a dicembre, sono rimasti sostanzialmente stabili: 22.900.000, appena 23.000 in meno dell’anno precedente. Ma è il risultato di un movimento niente affatto indolore. I disoccupati sono infatti aumentati di 221mila unità (163mila uomini e 58mila donne), portando la cifra totale e 2.243.000 persone (un milione di donne, il resto maschi); ovvero un aumento del 10,9% nel numero di senza lavoro, che diventa addirittura un +15,1 per la componente maschile. Per le magie della statistica, però, il tasso di disoccupazione complessivo è aumentato «solo» dello 0,8%. Dalla Cgil arriva una prima precisazione: queste cifre sono «al lordo» della cassa integrazione (i lavoratori in cig sono considerati a tutti gli effetti «occupati»), altrimenti saremmo già a 3 milioni.
Ma il dato più contraddittorio è quello relativo agli «inattivi», ovvero alle persone tra i 15 e i 64 anni che non lavorano. Sono quasi 15 milioni, ma risultano diminuiti di 186mila unità. Com’è possibile, se i disoccupati sono aumentati? La spiegazione è nello squilibrio tra popolazione anziana e giovanile: ci sono molti più anziani che escono dal novero di quanti sono considerati «in età da lavoro» che non giovani che vi entrano. La recente riforma delle pensioni costringerà anche l’Istat a cambiare – fin dai prossimi rapporti mensili – i criteri statistici: dovranno infatti esser calcolati come «in età lavorativa» anche gli anziani fino a 66 anni. Un effetto paradossale, ma non troppo, sarà dunque l’aumento vertiginoso della disoccupazione e anche del tasso di «inattivi». Ma non si tratta solo di un brutto scherzo statistico: quelle persone «in più», infatti, saranno senza un lavoro ed anche senza una pensione.
Una preoccupazione in più – se si devono prendere per buone le sue dichiarazioni – per il ministro del welfare, Elsa Fornero. Che ancora ieri, però, ha puntato tutte le sue chance sulla «riforma del mercato del lavoro». Ovvero su una riduzione drastica delle tutele, quindi sull’aumento della ricattabilità individuale dei lavoratori e, in definitiva, dell’intensità della prestazione o del prolungamento dell’orario di lavoro. Come dire: punta sul rafforzamento dei fattori che riducono l’occupazione. Quando usciremo da questa follia sarà sempre troppo tardi.

da “il manifesto”

Il miracolo? Più occupati, ma pagati meno e più precari

Guido Ambrosino
BERLINO

Non vengono conteggiate le persone inserite nei programmi di riqualificazione professionale, gli over 58 e i «mini-jobber»
BERLINO
Nel dicembre scorso erano ufficialmente registrati in Germania 2.780.000 disoccupati. Nel gennaio 2012 erano aumentati di 302.000 unità a 3.082.000. Sono così tornati a superare la soglia simbolicamente rilevante dei tre milioni. Anche la quota di disoccupazione è aumentata di 7 decimi di punto rispetto al mese precedente, al 7,3%. Ma niente paura: all’agenzia federale per il lavoro di Norimberga assicurano che l’incremento è tutto attribuibile ai soliti influssi stagionali. D’inverno i cantieri edili si fermano. Rallenta l’agricoltura. I ristoranti non possono sistemare tavoli all’aperto. Dopo natale il commercio si libera del personale supplementare ingaggiato per le feste. Se si depura il dato dai fattori stagionali, i disoccupati sarebbero diminuiti di 34.000 unità in confronto al mese precedente.
Quel che più conta è il confronto col gennaio 2011. Rispetto a un anno fa il computo delle persone senza lavoro si riduce di 264.000 unità. E anche la quota di disoccupazione, che nel gennaio 2011 era al 7,9%, è scesa da allora di 6 decimi di punto. È dunque legittimo scrivere, come fa la Frankfurter Allgemeine, che «il miracolo del lavoro continua».
Di «miracolo» si parla dall’inizio di gennaio, quando l’ufficio federale di statistica constatò che in media nel 2011 gli occupati in Germania erano stati per la prima volta più di 41 milioni. Più precisamente 41,04 milioni, con un incremento di 535.000 persone rispetto al 2010. Mentre la media annua di 2,9 milioni di disoccupati nel corso del 2011era la più bassa mai registrati nell’arco degli ultimi 20 anni. Rispetto ai 4,9 milioni di disoccupati del 2005, col cancelliere socialdemocratico Schröder, si è fatto un bel passo avanti.
Su questi vistosi record il governo Merkel batte la grancassa. Il ministro dell’economia, il liberale Philipp Rösler, ha fatto affiggere con un budget di 330.000 euro in tutte le grandi stazioni ferroviarie cartelloni che recitano «Grazie Germania. Ora tante persone, come mai prima, hanno un lavoro». Ma di che lavoro si tratta? Non c’è bisogno di scavare troppo per scoprire che spesso si tratta di lavoro a tempo parziale, precario, mal pagato.
Conviene per esempio guardare i dati delle ore lavorate. Nel 2000 sono state contate 57,7 miliardi di ore di lavoro retribuito, nel 2010 si era più o meno allo stesso punto, con 57,3 miliardi di ore. Se questo monte-ore si è distribuito su più spalle, e chiaro che a aumentare sono stati soprattutto i rapporti di lavoro part-time.
Il conglomerato di 41 milioni di occupati segnalato nel 2010 sussume situazioni assai diverse. Occorre innanzitutto distinguere tra i 4,5 milioni di lavoratori autonomi e di parenti che li aiutano in imprese di famiglia e 36,5 milioni di lavoratori dipendenti. Di questi solo 29 milioni hanno un lavoro passabilmente regolare e protetto, con l’obbligo di versare pienamente contributi assicurativi per la pensione, l’assistenza sanitaria, l’assegno di disoccupazione (a carico del lavoratore per metà, del datore di lavoro per l’altra metà). Più complesso lo status degli altri 7,5 milioni (circa il 30 per cento).
Circa 1,2 milioni non vengono conteggiati tra i disoccupati (definiti come coloro che lavorano meno di 15 ore a settimana, e vorrebbero lavorare di più) ma compongono la cosiddetta «riserva silenziosa» della schiera dei senza lavoro. Si tratta di persone inserite in programmi di riqualificazione professionale, o di avvio a lavori socialmente utili in cambio di un compenso di un euro all’ora. Oppure di persone che avendo superato i 58 anni di età non vengono di fatto considerate come effettivamente proponibili per un nuovo impiego.
Gli altri sono «mini-jobber», persone che guadagnano fino a 400 euro al mese. Costoro – in buona parte donne – sono esonerati dal versamento di contributi assicurativi, a carico del solo datore di lavoro in misura assai ridotta. E in vecchiaia finiranno in carico all’assistenza sociale. Nell’aprile 2011 si contavano 7,3 milioni di mini-jobber. Non pochi di loro affiancano uno di questi lavoretti a un primo lavoro, che però non dà da solo abbastanza per vivere.

da “il manifesto”

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