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La Fiat su Pomigliano battuta “grazie” alla Ue e Sacconi

La doppia pagine che “il manifesto” dedica alla vicenda getta molta luce su una vicenda che non è soltanto una causa in tribunale. Se questo giornale si occupasse sempre in questo modo dei problemi sociali veri, invece di dedicare paginate alle dichiarazioni ripetitive dei fantasmi che girano per il Parlamento, forse non sarebbe nelle condizioni disperate in cui si trova.

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Le due leggi che hanno consentito la sentenza portano la firma (involontaria) dell’Europa e di Maurizio Sacconi

Francesco Piccioni
Il tribunale civile riconosce che nello stabilimento campano c’è stata «discriminazione» nelle assunzioni e ordina di «sanare» la violazione
Che paese civile, doveva esser l’Italia fino a qualche anno fa! Pensate che esistevano delle leggi che riconoscevano ai cittadini il diritto di non essere discriminati in base alle proprie opinioni. Persino sul posto di lavoro! Forse per questo – diranno gli storici futuri – i saggi del sistema finanziario multinazionale pensarono bene di cancellare tutte le leggi che incongruamente difendevano il diritto di ogni singolo dipendente di avere un’opinione propria e di scegliere a quale sindacato iscriversi…
Il futuro è già qui. Ma per ora esistono ancora le leggi e i tribunali sono chiamati a farle rispettare. La Fiom ha ottenuto dal tribunale civile di Roma (non «del lavoro») la «madre di tutte le sentenze»: quella che impone alla Fiat – pardon, alla Fabbrica Italia Pomigliano (Fip) – di assumere 145 ex dipendenti iscritti alla Fiom. Per sovrappiù, la Fiat dovrà corrispondere a ognuno dei 19 ricorrenti un «danno esistenziale» pari a 3.000 euro. Sentenza inappellabile, subito esecutiva.
Il perché e il «quanti» è scritto nella legge, anzi in due. La cosa stupenda – una vera vendetta della logica e della storia – è che una delle due porta addirittura la firma di Maurizio Sacconi, il pasdaran passato alle cronache come ministro «del lavoro» (sì, lo so, anche questa suona strana..). Che ieri deve aver avuto seri problemi di fegato prima di dichiarare che «il provvedimento giudiziario è emblematico dell’anomalia che contraddistingue la giustizia italiana».
Il meccanismo è stato spiegato da un raggiante avvocato Lello Ferrara. Il contributo di Sacconi è rinchiuso in una procedura chiamata «ricognizione sommaria»; un po’ meno di un processo, un po’ di più di una «ricognizione semplice». Una cosa pensata per accelerare le «inutili lungaggini» che spingono certi giudici del lavoro a ostacolare il procedere delle imprese. Grazie; può servire anche in senso opposto (come sa chi sa di legge…).
La seconda è invece il semplice recepimento di una direttiva europea (e anche qui la logica si vendica…) in chiave di «pari opportunità». Un’indicazione anti-discriminazione che vale però anche nei casi di assunzioni al lavoro: nessuno/a può essere svantaggiato a causa delle proprie opinioni o tessere sindacali. Ineccepibile, nevvero?
E infatti non c’è eccezione che tenga, nemmeno a Pomigliano. Dove la Fiat, chiudendo e riaprendo come newco («un imbroglio», lo definisce Andrea Amendola, «contro la Fiom e tutti i sindacati dissidenti»), ha riassunto 2.091 dei 4.500 dipendenti originari. Di questi, nessuno tra gli iscritti alla Fiom. La quale, al momento del change aveva 623 iscritti, poi ridottisi a 382 a causa dei ricatti individuali (telefonate, avvertimenti, messaggi trasversali, ecc); ulteriormente scesi di 20 unità quando, di fronte all’alternativa «ti assumo solo se stracci la tessera», altri hanno ceduto. Bene, ha detto il giudice di Roma: 362 iscritti sono l’8,75% dei vecchi dipendenti di Pomigliano, quindi la Fiat deve assumerne almeno 145. In base alle disposizioni che vietano la discriminazione per qualsiasi ragione.
La legge prevede l’esame anche della «prova statistica». E uno statistico ha dimostrato che un’eventualità del genere (nemmeno un iscritto su tot assunti) si verifica una volta ogni 10 milioni. Insomma: la Fiat ha scientificamente scartato tutti quei vecchi dipendenti che avevano avuto qualche frequentazione col sindacato guidato da Maurizio Landini. Per avere una fabbrica popolata di schiavi obbedienti, da sottoporre al «rito dell’acquario» quando sbagliano qualcosa. Come a Guantanamo, pare.
Per una volta, anche Landini si fa prendere dalla commozione, come tutti i protagonisti del tavolo Fiom (Franco Percuoco, Ciro D’Alessio, oltre ad Amendola). E ringrazia la stampa che ha tenuto in primo piano la vicenda, dandole rilievo politico. Soprattutto ringrazia i suoi «ragazzi» che hanno messo la dignità di tutti davanti all’interesse individuale. E annuncia che la Fiom non userà questa sentenza per pretendere il «rispetto di una quota» fissata dal giudice. Le tute blu pretendono invece che a Pomigliano siano riassunti tutti i 4.500 dipendenti che c’erano, senza guardare alle tessere sindacali. «Il mercato non tira abbastanza?». Bene, si faccia come in Volkswagen, qualche anno fa: redistribuzione del lavoro, riduzione d’orario e contratti di solidarietà (a Wolfsburg: 27 ore settimanali, con integrazione di cig). Se davvero la Fiat «crede nel suo progetto», le sarebbe facile accettare; non avrebbe senso perdere tante competenze. Se non lo fa è la prova che «non ci crede nemmeno lei».
Perché «questa sentenza sana una ferita, ma non risolve tutti i problemi». La garanzia dei diritti e dell’agibilità dovebbe essere il compito del governo e delle forze politiche; che da due anni tacciono (nel migliore dei casi) davanti allo scandalo del« modello Pomigliano». Davanti a un’azienda che se ne frega delle leggi e della Costituzione. Ma anche perché c’è un problema di investimenti promessi e non fatti, di un «piano industriale» sconosciuto a tutti e di un evidente allontanamento progressivo della Fiat dall’Italia. «È in gioco un intero settore industriale», ricorda Landini.
È lotta civile in senso stretto. Il tribunale che ha deciso non era «del lavoro». Si è pronunciato sui diritti fondamentali (art. 4 della Costituzione e egualianza), non su accordi te,poranei. Sarà un caso, ma a tarda sera la Fiat era ancora letteralmente senza parole. Ricorrerà in appello, ovvio. Ma non osa dire nulla. Apparirebbe davvero incivile.
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Se la legge è uguale per tutti

Loris Campetti
Il castello di Sergio Marchionne si è disfatto come una formina di sabbia quando arriva un’onda più potente e distrugge la costruzione con le torri allestita dal bambino in costume. Anche il castello di Marchionne era costruito sulla sabbia e una sentenza del tribunale di Roma l’ha buttato giù, semplicemente rimarcando un dato ovvio ma mai acquisito davvero: in Italia la legge vale anche per la Fiat. La Fiat ha discriminato gli operai iscritti alla Fiom per le loro idee e per colpire il sindacato da cui hanno deciso di farsi rappresentare. Su 2091 nuovi (si fa per dire) assunti non ce n’è uno solo con quella tessera in tasca. E questo non si può fare da noi, neanche invocando la produttività e la globalizzazione, il dio mercato e la madonna spread. Di conseguenza la multinazionale, già torinese, è costretta dalla sentenza ad assumere subito, oggi, nella nuova società di Pomigliano – nuova solo per mettere fuori il sindacato di Landini – 145 operai iscritti alla Fiom.E a pagare 3 mila euro a ciascuno dei 19 lavoratori che hanno intentato causa all’azienda, l’intero gruppo dirigente dei metalmeccanici Cgil sotto il Vesuvio.
Non basta. Siccome una sentenza precedente targata Torino obbliga la Fiat a riconoscere il diritto della Fiom a eleggere le sue rappresentanze, ora che 145 militanti di questo sindacato rientreranno in fabbrica automaticamente potranno darsi una rappresentanza e riprendere quell’attività democratica che nel castello di sabbia di Marchionne era stata loro impedita. Non è una vittoria della Fiom ma della democrazia perché riconosce ai lavoratori il diritto di scegliere il proprio sindacato e condanna la pretesa della Fiat di decidere al loro posto.
La sentenza di Roma rappresenta la vittoria di una straordinaria comunità operaia che ha resistito all’aggressone di un padrone prepotente che ha tentato in tutti i modi, con l’aiuto dei sindacati complici, dei governi, della politica subalterna di espellere i diritti dalla fabbrica. Franco non riesce a trattenere le lacrime, Antonio che è appena sbarcato da un congresso internazionale del sindacato dell’industria a Copenhagen si stropiccia gli occhi assonnati e non riesce a parlare. Maurizio Landini fatica a nascondere una commozione sincera e per primi ringrazia gli operai di Pomigliano che hanno resistito a minacce, ricatti e sirene che consigliavano di consegnare lo scalpo in cambio del posto. La controprova della discriminazione messa in atto dalla Fiat sta nel fatto che 20 operai di Pomigliano sono stati assunti solo dopo aver stracciato la tessera della Fiom. Ciro invece ringrazia le mogli e le compagne degli operai discriminati per aver sopportato e anch’esse resistito. «La cosa più bella questa mattina è stato il pianto a dirotto di mia moglie quando ci hanno telefonato la notizia della sentenza».
Dignità e orgoglio sono i pilastri di una resistenza durata due anni, due anni terribili in cassa integrazione perché marchiati a fuoco, con i figli che ti guardano negli occhi «e tu quasi ti vergogni», con i negozianti che non ti fanno più credito, i vicini di casa che non ti salutano, gli ex compagni di fabbrica che se ti incontrano abbassano la testa. Quella di Pomigliano è una storia modernissima che ricorda tante storie del Novecento e persino dell’Ottocento, quando non c’erano la globalizzazione e lo spread e i padroni delle ferriere facevano il bello e soprattutto il cattivo tempo. C’erano anche comunità di resistenti, mondine, minatori, ferrovieri, operai. Poi finalmente l’Italia postfascista si è data una Costituzione e persino uno Statuto dei lavoratori. Poi sono tornati i padroni delle ferriere, la politica è stata a guardare o ha applaudito l’uomo della provvidenza con il golfino, i sindaci democratici hanno detto che se fossero stati operai avrebbero detto sì a Marchionne che cancellava lo sciopero, la mensa, i riposi, la Fiom. I governi hanno assecondato e a Pomigliano sono stati costretti a fare come le mondine, i minatori, i ferrovieri, gli operai dell’Ottocento e del primo Novecento. I media si sono messi in linea. Sono tenaci questi operai ribelli, e generosi perché lottano per tutti e chiedono che tutti e 5 mila tornino al lavoro. E se di lavoro ce n’è poco, si possono sempre fare i contratti di solidarietà seguendo l’esperienza della Volkswagen. Dice Ciro: «Mando un pensiero anche a chi non ce l’ha fatta, a chi preso per la gola ha piegato la testa con la speranza di tornare al lavoro e magari ancora aspetta una chiamata. Non li abbandoneremo. Spero che questa sentenza dia coraggio a chi è stato vinto dalla paura».
Anche nella Cgil in molti avevano «consigliato» agli operai di Pomigliano e in seguito a quelli di Mirafiori di mettere da parte orgoglio e principi per mantenere il diritto a fare sindacato in fabbrica. Bella roba. Andrea non si tiene, in un misto di rabbia e di gioia quasi grida: «Marchionne dovrebbe finalmente capire che da questa fabbrica non riuscirà mai a cacciarci». Insomma, Corvo rosso non avrai il mio scalpo.
Come dice il commosso Landini, che deve il suo successo sindacale e mediatico anche all’orgoglio di questa comunità operaia e lo riconosce, «Marchionne dovrebbe capire che la determinazione, la voglia di lavorare e lavorare bene di queste persone farebbero funzionare meglio le sue fabbriche». Chissà che pensa Marchionne, tutti si chiedono cosa potrà mai inventarsi questa volta. Con quale faccia potrebbe reagire annunciando la dipartita dall’Italia (che sta praticando da mesi) perché vogliono fargli rispettare le leggi e le sentenze? La verità è che dei cinquemila dipendenti della vecchia fabbrica di Pomigliano ne ha riassunti solo duemila, perché la Panda non si vende e la Fiat continua a perdere quote nei mercati italiano ed europeo. Però Marchionne pensavava di avere almeno spezzato le reni a quei ribelli della Fiom che come dice Crozza gli tirano i gatti morti sul finestrino. Ha sbagliato i conti, se non si investe in nuovi prodotti si esce dai mercati e infatti investe soltanto negli Usa dove la Chrysler non sta uscendo dal mercato. E sbaglia perché non ha capito di che farina sono fatti gli operai della Fiom di Pomigliano. Resta la speranza, seppur vaga, che tanti errori possano insegnargli qualcosa. Ma è già una grande soddisfazione, questo ci sia consentito, vedere questi nostri amici partenopei piangere di gioia e immaginare la natura diversa delle lacrime di Marchionne.
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62 cause per comportamento antisindacale. Sette vittorie

Sara Farolfi
Sessantadue cause, tante quanti sono gli stabilimenti della Fiat in Italia. È dalla firma del contratto unico del settore auto, il 13 dicembre 2011, entrato in vigore il primo gennaio di quest’anno, che la conflittualità tra la Fiom e la Fiat viaggia a tutta velocità anche sul binario delle cause legali. Nel silenzio della politica e delle istituzioni non resta che affidarsi ai giudici. Che finora hanno dato ragione alla Fiom con sette sentenze. Quattordici invece sono quelle vinte dalla Fiat, mentre in un caso, a Modena, il giudice ha riconosciuto le motivazioni della Fiom ma ha chiesto alla Corte costituzionale di esprimersi.
Sessantadue cause, intentate dalla Fiom contro la Fiat per comportamento antisindacale (ex articolo 28). Oggetto del contendere il contratto auto siglato dalla Fiat con Fim, Uilm e Ugl. Il contratto che ha esteso a tutti gli stabilimenti del Lingotto l’ormai noto «modello Pomigliano». Diciotto turni di lavoro, con chiamata anche il sabato, 40 ore in più di straordinario, pause e mensa ridotte al lumicino, in cambio di 600 euro di premio di produzione per quest’anno. Non solo, perchè l’elemento più insidioso del «contratto Fiat» è proprio la norma sulla rappresentanza sindacale, laddove vengono abolite le rsu (rappresentanze sindacali unitarie) e istituite le rsa (rappresentanze sindacali aziendali) nominate dai sindacati firmatari dell’accordo. Fuori dalle fabbriche dunque la Fiom. Fuori dalle fabbriche, soprattutto, i diritti dei lavoratori iscritti alla Fiom.
Così dalla Magneti Marelli di Bologna è partita la prima iniziativa legale. Lì è arrivata anche la prima vittoria, poi seguita da quelle ottenute alla Magneti Marelli di Bari, alla Lear di Caivano, alla Powertrain di Termoli, alla Sevel di Atessa, a Verona e a Pomigliano (per una causa sindacale precedente a quella civile vinta ieri). In quegli stabilimenti la Fiom ha così potuto riappendere le bacheche, nominare le proprie rappresentanze, e ricominciare la propria attività sindacale.
Anche alla Powertrain di Termoli il giudice del lavoro ha dato ragione alla Fiom e ha condannato la Fiat per comportamento antisindacale, riconoscendo il diritto di rappresentanza aziendale della Fiom con l’ultrattività del contratto nazionale unitario firmato nel 2008. Ma la Fiat ha approfittato della sentenza per applicare alle retribuzioni degli iscritti Fiom solo i minimi sindacali previsti dal contratto unitario del 2008. Cosa che, a partire da maggio, ha ridotto le buste paga degli operai con tessera Cgil fino a 300 euro al mese. Non solo: l’assemblea convocata dalla Fiom per mercoledì è stata rimandata dopo che la Fiat, martedì, ha pensato bene di mettere in cassa integrazione la metà circa dei dipendenti dello stabilimento.
Recentemente, spiega Michele De Palma, giovane responsabile del settore auto per la Fiom, sono partite anche le cause per le trattenute sindacali, per restituire agli iscritti Fiom il diritto (oggi negato) di versare la quota al proprio sindacato di riferimento. «Fin dall’inizio abbiamo cercato di tenere insieme l’iniziativa sindacale, quella pubblico istituzionale e quella legale, intrapresa per tutelare i lavoratori», spiega De Palma, «è chiaro che la cosa più opportuna in questo momento è che le istituzioni affrontino la questione, soprattutto sul futuro industriale della Fiat». Perchè il roboante piano di Fabbrica Italia non è in realtà mai partito e in tutti gli stabilimenti del gruppo dilaga solo la cassa integrazione.

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