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Italia. Salute e sanità a rischio


Con la spending review appenna approvata dal Parlamento, la gragnuola di colpi già ricevuti dalla sanità pubblica e quelli in via di assestamento, è stata e sarà di una vastità impressionante e và dai numerosi miliardi annui di mancati trasferimenti statali alle regioni, ai 30.000 posti letto da tagliare in aggiunta ai 45.000 già soppressi dal 2000 ad oggi; dall’aumento costante dell’Irpef regionale all’intramoenia;  dai ticket  alla revisione continua e al ribasso dei livelli essenziali di assistenza; dal blocco decennale del turn-over, che ha portato  alla carenza di 60.000 Infermieri a tassi d’infortunio del personale di assistenza tre volte più alti di quelli dell’industria pesante.
L’introduzione di una franchigia  in base al reddito, come forma di compartecipazione alla spesa sanitaria al posto dei ticket, nel Paese nel quale un gioielliere guadagna meno di un pensionato statale se non fosse drammatica sarebbe esilarante.
Invece fa solo incazzare, senza altra possibilità, che al primo ruggito delle lobby delle farmacie, delle multinazionali del farmaco e della sanità privata – indisponibili a veder minimamente scalfito il proprio margine di profitto – sia corrisposto un immediato passo indietro del governo, subito pronto a compensare il mancato introito con ulteriori tagli del servizio sanitario pubblico e con l’aumento delle tasse: forti coi deboli e deboli coi forti!
Immediato passo indietro anche sulla sacrosanta prescrizione del principio attivo equivalente al posto del farmaco di marca che, ancor prima che generare sicuro risparmio, sarebbe una risposta etica e di civiltà alla politica dei brevetti e al monopolio delle multinazionali del farmaco, responsabili del mancato accesso alle cure di oltre 2 miliardi di persone nel mondo.
Scontata e d’ufficio la difesa da parte della “classe” medica italiana che, a corto d’argomenti scientifici,  ha invocato nientedimeno che il diritto all’autonomia di scelta che, al netto dell’ipocrisia, consiste nella possibilità di continuare ad usufruire della “generosità” della sezione marketing delle multinazionali farmaceutiche che, dopo i dividendi tra gli azionisti, costituisce il maggior titolo di bilancio.

Ma ancor più grave è la mistificazione dei dati sullo stato di salute degli italiani.

E’ opinione comune ormai, grazie ai dati Eurostat ampiamente e artatamente sbandierati, che gli italiani siano ai primi posti mondiali per longevità.
Ci si riferisce all’aspettativa di vita alla nascita che in Italia è in costante aumento, tanto da essere stata utilizzata, in maniera del tutto impropria, dalla Ministra Fornero a motivazione dell’ignobile riforma delle pensioni.
L’aspettativa di vita alla nascita è un indicatore statistico esclusivamente quantitativo – frutto della media del pollo di Trilussa – e che risente in gran parte della riduzione della mortalità infantile e della cronicizzazione delle malattie.
Ma il rapporto dell’Eurostat ci fornisce anche il dato della qualità della salute che, seppur privo di risalto mediatico è, invece, determinante ed in stretta relazione con l’accesso al servizio sanitario pubblico e con la sua efficacia.
La quantità di vita è aumentata, ma la quantità di vita sana si è drasticamente ridotta a partire dal 2003, per crollare sotto i livelli medi nel 2008.
Se nel 2003 una donna di 65 anni aveva circa 14 anni di aspettativa di vita sana di fronte, nel 2008 ne aveva 7;  va peggio per una bambina nata nel 2004  che passa dai 71 anni di aspettativa di salute alla nascita ai 61 anni nel 2008.
Sulla qualità della vita influiscono numerosi fattori, ma è certo che l’ambiente, le condizioni sociali e di lavoro, il reddito e  l’accesso alle cure sono determinanti.
E’ di questi giorni la notizia che in Campania l’aspettativa di vita è di 2 anni inferiore rispetto alle Marche (in testa alla classifica), figuriamoci di quanto si è ridotta quella di vita sana.
In Italia sono decenni che si taglia il servizio sanitario pubblico, con colpa grave della politica e del sindacato concertativo, fino a generare un servizio di serie A ed uno di serie B; con i ricchi che decidono dove e come curarsi e i vecchi e nuovi poveri ai quali è invece sempre più preclusa tale possibilità.
Sono già 9 milioni gli italiani che dall’inizio della crisi non hanno accesso alle cure, un numero che è drasticamente destinato a salire man mano che il pubblico viene ritirato dalla scena.

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