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Lavori usuranti, lavoratori resistenti

L’ultima istantanea è di un paio di mesi fa: l’uomo si ferisce un braccio davanti alle telecamere. Lui, Stefano Meletti, è nato a Gonnesa e ha 48 anni, metà dei quali passati nella miniera della Carbosulcis. “Quando si toglie un posto di lavoro, si toglie una vita – ha spiegato dopo con voce calma –. Io sono una persona serena e riflessiva, ma quando mi metto i panni da minatore ho una certa dose di determinazione”.
La determinazione del lavoratore in lotta per quello che è più di un semplice impiego, quella forza che arriva da non si sa dove quando ci si gioca un pezzo importante della propria vita.
Marx sosteneva che la natura dell’uomo è nel lavoro, ma non basta; per capire questi uomini bisogna scomodare la mente brillante di Hanna Arendt: la condizione umana non è solo lavoro, ma è anche opera che compensa le mancanze biologiche e, soprattutto, attività, che consente all’uomo di sviluppare la propria singolarità, l’imprevedibile, la propria essenza più autentica.

Lo Stato non va così per il sottile e li chiama con il suo quasi incomprensibile burocratese “Lavoratori addetti a lavorazioni particolarmente faticose o pesanti”. Il 25 febbraio 2011, con un decreto, il governo Berlusconi ha quantificato il valore di queste persone in un buono sconto per la pensione del valore di tre anni. Insomma, cavatori, minatori, palombari, soffiatori di vetro, operai che asportano amianto, addetti alla catena di montaggio possono smettere di lavorare tre anni prima degli altri.

Il Sulcis è il territorio più a sud della Sardegna. Le attività minerarie vanno avanti dai tempi dei Fenici, ma è soltanto dall’800, con i Savoia, che si può cominciare a parlare di miniere e minatori. Dopo aver attraversato gli anni dell’autarchia fascista e quelli della cassa integrazione imposta dall’Eni – che negli anni ’80 intascò fior di miliardi dallo Stato ma non estrasse nulla per un decennio –, è da 17 anni che Carbosulcis è sul mercato, con la Regione Sardegna a guidare la privatizzazione delle miniere. Ma di compratori non ce n’è neanche l’ombra e le cose rimangono in bilico tra l’incubo della chiusura e diverse tornate di ammortizzatori sociali per i centinaia di lavoratori rimasti. Pensare che nel 1942 la manodopera toccava quota 8mila operai. Sembra una lotta di autodeterminazione, quella dei minatori sardi, l’ultimo baluardo di un qualcosa che fu glorioso ma che ora va alla deriva nel mare in tempesta della new economy.

Quando parlano del Sulcis-Iglesiente, i manager usano toni e parole da messa funebre: questo carbone è fuori mercato, estrarlo costa troppo, c’è troppo zolfo, bisognava chiudere tempo fa, rimettere in moto tutto vorrebbe dire solo perdere dei soldi. In una sola espressione che fa rabbrividire per cinismo: “il carbone non è bancabile”.

A nulla serve parlare dei tanti progetti di una riconversione ecocompatibile delle miniere, il puntare all’avanguardia che l’Italia sembra non voler accettare per principio. Il requiem – non delle miniere, ma del turboliberismo – lo recita Giuseppe Deriu, direttore generale della Carbosulcis dal 1996 al 2010: “Dove sta la razionalità e chi è fuori dal tempo? I minatori che lottano o i rapaci dell’alta finanza e della speculazione che continuano ad arricchirsi, a fare i propri comodi e ‘di tutto il resto chi se ne frega’? L’interruttore che utilizziamo con semplice pressione di un dito dovrebbe qualche volta indurci a riflettere che dietro alla disponibilità dell’energia che ha reso comoda la nostra vita c’è la fatica di uomini e donne che con intelligenza, coraggio, determinazione e abnegazione continuano a tenere accesa la fiaccola della dignità del lavoro”.

Dal canto loro, i minatori hanno provato a farsi sentire, inabissandosi per protesta a 373 metri di profondità. Quello che hanno ottenuto è soltanto una situazione di stallo: lo stabilimento forse per adesso non chiude, ma le prospettive di futuro non vengono nemmeno considerate tra le ipotesi più remote. Si rimane così, insomma, a ballare sul filo del rasoio.

Poche decine di chilometri più a est, dall’altra parte del Tirreno, ci sono invece altri professionisti della fatica – e del pericolo – che si arrampicano su enormi pareti di roccia e respirano una polvere che imbianca i polmoni fino a farli diventare due pezzi di marmo. Sono i cavatori di Massa e Carrara, equilibristi anarchici da generazioni, gente che ha “il contro in testa”. Il trenta percento del marmo italiano viene da queste due cittadine separate da appena una collina.

A spiegare l’epica di chi lavora – e talvolta muore – nelle cave c’ha pensato recentemente Marco Rovelli, con un libro intitolato appunto “Il contro in testa” (Laterza, 2012). “Il cavatore – ci dice – è un mestiere che ti costringe al sole, che ti prosciuga nel biancore abbacinante delle cave, e ti espone al rischio costante: troppo lungo sarebbe srotolare la lista delle morti in cava. Per ciò il cavatore è refrattario, ha il contro in testa. Ed è un contro anarchico: dove l’anarchismo è una reazione all’appropriazione privata delle cave nell’Ottocento, cave che prima erano beni comuni”. Da queste parti il lavoro in cava è considerato avanguardia di libertà: nel 1911, dopo una dura lotta condotta per lo più dai sindacati anarchici, la giornata lavorativa non dura più di sei ore (tanto per dire, lo Statuto dei Lavoratori sarebbe arrivato oltre mezzo secolo dopo).

“Per noi – spiegò un cavatore durante un’intervista ad A Rivista Anarchica – l’affermazione dell’anarchismo a Carrara non ha significato il prevaricare di una forza politica sulle altre, né tantomeno l’invio di un politico in Parlamento piuttosto che di un altro, ha invece significato realmente unità per le realizzazioni di comune interesse; proprio perché non ci siamo curati di guidare, di governare gli uomini, ma ci siamo semplicemente preoccupati di intervenire sulle cose, e di trasformarle a beneficio, con la partecipazione e nell’interesse della classe lavoratrice e della collettività”.

Anche in questo caso, però, oggi il numero di persone che lavorano nelle cave è ormai ridotto a poche centinaia: le assunzioni nel settore sono bloccate da anni e il resto lo fanno le morti bianche. Il cosiddetto “oro bianco” sta vivendo una crisi senza precedenti, le aziende chiudono una dopo l’altra e un altro pezzo dell’Italia che lavora – e che resiste – sta, neanche tanto lentamente, scivolando verso il dimenticatoio.

“Può sembrare l’inferno, invece è uno scalo per il paradiso”, ci spiegano. A Realmonte, in provincia di Agrigento, cento metri sotto terra, ci sono venticinque chilometri di gallerie dove si estrae il salgemma che va a finire sui nostri tavoli da pranzo o viene utilizzata dalle industrie. Nei meandri di questo luogo sperduto sotto il suolo siciliano, si nasconde la Cattedrale di Sale, una chiesa interamente scolpita nella roccia sotterranea. Ti giri e c’è la Sacra Famiglia, ti volti dall’altra parte e appare Gesù sulla croce, guardiani eterni delle grotte bianche. Ogni anno, il 4 dicembre, il vescovo scende e celebra una messa in onore di Santa Barbara. “Questo è il nostro mondo – dice un minatore – e il nostro mondo ha bisogno anche di un luogo per pregare”.

In Sicilia, le miniere di salgemma sono tre: oltre Realmonte, troviamo Racalmuto e Petralia. A gestire il tutto c’è la Italkali, 300 dipendenti e un fatturato da quasi 75 milioni di euro e una produzione annua che si aggira intorno ai due milioni di tonnellate di salgemma estratto. Il rischio è  lo stesso da sempre: un’esplosione troppo potente e le pareti vengono giù, trasformando tutto in una tomba di sale.

Il nemico vero, però, è la mafia: una mano invisibile che s’infiltra in una tradizione secolare nutrendosi di racket e ritorsioni. La cronaca racconta che nel marzo scorso, 12 camion che trasportavano il sale marchiato Italkali dalla miniera di Racalmuto verso una raffineria poco distante, sono andati a fuoco. E non è stata una casualità. Gli investigatori hanno pochi dubbi sul movente del gesto, ma le indagini, come da copione, sono complicatissime e difficilmente si arriverà mai a una qualche forma di chiarezza sulla vicenda. Va ricordato, tra l’altro, che proprio il Comune di Racalmuto – terra natale di Leonardo Sciacia – è stato sciolto per infiltrazioni mafiose la scorsa primavera. E’ l’autobiografia di un paese allo sbando, dove le cose non possono funzionare e le migliori intenzioni sono sempre la premessa di una tragedia.  La differenza la fa il coraggio, la volontà di andare avanti, di provarci finché ce n’è. E allora le miniere non chiudono mai, neanche il giorno di Natale: Cristo nel sale ci vive scolpito e i cristalli di salgemma brillano anche al buio.

Era il 1295 quando la Repubblica di Venezia decretò che tutte le vetrerie della laguna dovevano essere trasferite a Murano. La decisione era basata su una banale questione di sicurezza: i laboratori sparsi per la Serenissima erano tutti costruiti in legno e la frequenza degli incendi stava assumendo proporzioni allarmanti. Oggi Murano è la capitale mondiale del vetro, con un migliaio scarso di persone – oltre seimila vent’anni fa – che si friggono i polmoni nel nome della bellezza e dei souvenir per turisti.
Qualche mese fa ad interessarsi della questione è stato anche il Guardian di Londra. Parlando della crisi del settore, il giornale inglese ha individuato alcuni problemi: il primo è una classica “crisi delle vocazioni”, nessuno vuole più imparare il mestiere e chi lo svolge, per motivi puramente anagrafici, è prossimo all’estinzione. Il secondo è legato alla globalizzazione, cioè alla concorrenza spietata di “imitazioni da quattro soldi” provenienti per lo più dai paesi asiatici. Non è raro, d’altra parte, camminare per le calli di Venezia e comprare oggetti di vetro con la targhetta “Made in China”.
Ma c’è un altro punto su cui si è arenata la tradizione dei soffiatori: manca il ricambio artistico. Ovvero, può un’industria che, sostanzialmente, è uguale a se stessa da quasi un millennio rimanere al passo con i tempi? Ovvero, come ha detto al Guardian il capo della sezione industrie del vetro alla Confindustria veneta, Diego Ferro, forse “c’è un potenziale di sinergie che aumenterebbe il valore dei nostri prodotti”. Tradotto dal linguaggio aziendalista, vuol dire: possibile che non si trovi al mondo un artista capace di tirare fuori nuovi motivi e nuove fantasie?
Il colpo di grazia è costituito dai cosiddetti “mediatori”, quei soggetti che prendono i turisti, li impacchettano e dopo un giro in battello li portano nelle fabbriche di Murano, aprendo per loro le porte dei gift shop dove comprare qualche pezzo appena sfornato. In cambio di questo servizio, il mediatore intasca una succulenta percentuale del guadagno, di molto superiore rispetto a quello che prende un soffiatore.
Non serve citare la Scuola di Francoforte per evidenziare il contrasto che c’è tra una forma d’arte e la sua commercializzazione selvaggia. La fame dei turisti si placa a spuntini: non la tradizione degli artigiani, ma il ricordino da mettere in salotto. Non la Storia, ma l’aneddoto.

Ed è qui che si ritorna al punto di partenza, l’abisso in cui stiamo sprofondando fa delle tradizioni nient’altro che una merce, quantifica in spiccioli qualcosa che va avanti da secoli, tramandandosi di generazione in generazione. Non basta andare in pensione tre anni prima per definire i contorni di questa gente dalle mani di pietra. Uno sconto comitiva non può bastare.

L’immagine del minatore sardo che si ferisce da solo è tutto: non si tratta del nostro lavoro, ma del nostro sangue.

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