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L’Italia di Renzi, un lager per il lavoro

Certe cose bisogna studiarsele nei dettagli, altrimenti si resta prede della stampa di regime. Avete presente quella storia dei contratti a termine estesi dal governo Renzi fino a “3 anni e otto proroghe”? Beh, è tutto fumo negli occhi. Il testo del decreto è assai peggio. In pratica, si può restare assunti “a tempo determinato” anche per tutta la vita, con rinnovi ad libitum, “grazie” all’eliminazione completa di limiti preesistenti.

A spiegarlo nei dettagli provvedono i Giuristi Democratici, che hanno deciso di denunciare alla Commissione Europea il governo italiano per violazione – fra l’altro – della normativa comunitaria in materia. Naturalemente, il decreto di Renzi & co. È palesemente anticostituzionale sotto numerosi aspetti, al punto che – scherzando – gli esperti riuniti nella sala della Fondazione Lelio Basso possono dire: “questo decreto creerà certamente molto lavoro, ma per gli avvocati”. Anche Confindustria dovrebbe stare bene attenta a giore per la sua approvazione, perché si tratta di una “polpetta avvelenata”, esattamente per questo motivo.

L’impianto del decreto risulta anche alla prima analisi superficiale, “neoliberista in modo sfrenato”. Un disegno organico “difficilmente modificabile in sede parlamentare” (da questo parlamento, poi…), anche perché ogni compromesso su queste basi sarebbe “semplicemente sbagliato”. Sergio Mattone, decano dei giuslavoristi italiani, non riesce a trovare termini meno crudi per un decreto che punta esplicitamente a fare del lavoro dipendente una sostanza liquida, erogabile a domanda, usa-e-getta, senza diritti né tutele. Si può solo denunciare e combattere, non “migliorare” o attenuare (la cosiddetta “linea Fassina”).

È del resto la dodicesima volta in un ventennio che si interviene in materia di “mercato del lavoro”. Sempre con norme peggiorative orientate all’obiettivo della “maggiore flessibilità”. Quindi non è che sia rimasto molto da rimuovere, in fatto di “lacci e lacciuoli”. Se fosse vera la teoria che a maggiore flessibilità del lavoro fa seguito maggiore occupazione e crescita più solida, oggi dovremmmo insomma avere piena occupazione e tassi di sviluppo cinesi. E invece…

Detto questo, prima dell’ultimo intervento legislativo era possibile per una impresa far ricorso ai contratti atermine solo in presenza di “cause occasionali, instabili, non certe”. Insomma, per lavori stagionali (dal bagnino alla raccolta della frutta, dagli addetti agli impianti di risalita all’alberghiero nei posti di vacanza, o per picchi di domanda eccezionali e irripetbili). Le aziende dovevano dunque motivare “la causale” di questa assunzioni a tempo determinato.

La Fornero aveva già allentato il (molto relativo) vincolo, mantenendo l’obbligo della causale ma rendendo possibile il contratto a termine per qualsiasi lavoro, anche non occasionale. Un solo limite: la durata complessiva non poteva andare oltre l’anno, 12 mesi.

Renzi ha abolito ogni limite ed anche la causale. Il limite dei tre anni di cui hanno parlato i media, infatti, vale per il singolo contratto, non per la successione dei contratti. E in ogni caso il singolo contratto a termine può essere comunque prorogato con accordo aziendale e su richiesta del singolo lavoratore… Basta immaginarselo un attimo: “la prego, signor padrone, mi lasci precario ancora per qualche mese, poi vediamo se è il caso di assumermi in pianta stabile”. È uno scenario credibile, no?

Si tratta dunque di un decreto che annulla ogni possibile tutela del singolo lavoratore, ma non è senza precedenti. Un referendum chiesto dai radicali, quindici anni fa, puntava allo stesso obiettivo. Ma venne dichiarato inammissibile dalla Corte Costituzionale – sentenza 41/2000 – perché la “radicale assenza di tutele” prevista dal quesito andava ad intaccare diritti indisponibili persino alla “sovranità popolare”. Ovvero: se anche tutto il popolo italiano fosse stato d’accordo nell’eliminare le tutele del lavoro non si sarebbe potuto precedere in quel senso. Tanto più che persino la normativa europea – “sovraordinata” rispetto a quella nazionale – non era (e non è ancora) così carogna.

La constatazione può risultare soprendente, visto che è proprio l’Unione Europea ad insistere ogni giorno sulla necessità di “flessibilizzare il mercato del lavoro”. Ma anche qui bisogna tener conto del fattore tempo e delle modificazioni intercorse nella cultura istituzionale “dell’Europa”. La normativa comunitaria d’allora – fin qui non modificata – era figlia della condivisione generale del “modello sociale europeo”; le crescenti pressioni neoliberiste ancora non erano diventate “diktat”, né avevano assunto un ruolo così centrale gli interessi (tedeschi, soprattutto) ad avere delle “zone produttive speciali” all’interno dell’eurozona. Anzi, in quegli anni era la Germania a chiedere di poter sforare i limiti di Maastricht in modo da smaltire senza traumi le conseguenze della rapida “sussunzione” dei länder orientali.

È stata quella normativa, per esempio, a rendere possibili ben due sentenze di condanna per “riforme” imposte dal governo greco in questi anni; ed entrambe riguardano i contratti a termine, guarda caso. Si tratta delle sentenze Adelener (https://sites.google.com/site/midanazionale/riferimenti-normativi/elenco-decreti-leggi-art-costituzionali/c-212-04-caso-adeneler) e Kyriaki-Angelidaki (http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/HTML/?isOldUri=true&uri=CELEX:62007CJ0378), esplicitamente rivolte ad impedire il “rischio di ricorso abusivo alle forme contrattuali a tempo determinato” e a fissare la cosiddetta “clausola di non regresso” (il rapporto di lavoro va legato alla condizione oggettiva in cui si svolge, per impedire abusi).

Ancora più semplice, sul piano giuuridico legale, è smontare l’applicazione pratica della nuova norma sull’apprendistato, secondo Carlo Guglielmi, visto che si abolisce sia l’obbligo aziendale di presentare un “piano formativo” dell’apprendista, sia la verifica pubblica di questa formazione. Senza formazione, infatti, non c’è apprendistato. Ma lo “spirito” del decreto si autodenuncia per ben quattro modifiche alla normativa precedente: a) abolisce l’obbligo di assumere stabilmente una quota degli “apprendisti” prima di poterne assumere altri con la stessa formula; b) rende la “certificazione pubblica” solo facoltativa (fare come volete, insomma); c) assegna un livello di inquadramento categoriale due gradini soto la mansione effettivamente compiuta (con un salario dunque significativamente minore del dovuto); d) considera per forfait il 35% del tempo lavorato come “formazione” e quindi non retribuito.

Che può volere di più un “datore di lavoro”? Perché mai dovrebbe, a questo punto, accettare il pur favorevole “contratto unico a tutele crescenti”? Non per caso, la famigerata “proposta Ichino” è stata rinviata a un secondo momento…

Secondo Pier Luigi Panici forse è persino troppo. Si tratta certo un colpo “violento” ai diritti del lavoratore; ma questo “eccesso” sembra frutto di una ignoranza giuridica e costituzionale che rende il testo stesso particolarmente debole. Il ministro del lavoro – si fa per dire – Poletti risulta su questo piano “addirittura imbarazzante” quando dice che “sono le tutele a creare disoccupazione”, manifestando sia “analfabetismo costituzionale” che scarsa conoscenza dell’evoluzione dell’economia italiana. Stesso ragionamento per Giorgio Napolitano, di solito abituato a filtrare i testi delle leggi al lume della Costituzione (ne ha rinviate diverse, durante i governi Berlusconi), che non ha avuto niente da eccepire contro l’inaudito ricorso alle “ragioni di necessità e urgenza” in materia di regole del mercato del lavoro.

Il contesto generale è comunque molto complicato. Lo “scudo” offerto dalla normativa comunitaria in materia di contratti a termine sembra ancora solido, ma esposto ai venti liberisti che dominano a Bruxelles. Altre sentenze della Corte di Lussemburgo, dovendo scegliere tra la “libertà di impresa” e il “diritto dei lavoratori”, hanno spostato decisamente l’asse dal lato del capitale. E nessuna inziativa legale o giuridica, in ogni caso, può colmare un vuoto di iniziativa sociale, di resistenza sindacale e politica. “Il diritto è riconoscimento del fatto”, diceva il saggio. E non basta mai, da solo, a contrastare l’avanzare dei nuovi fatti. Esattamente come il “custode della Costituzione” è disarmato davanti alla reazione autoritaria, se non s’addensa una Resistenza all’altezza della sfida.

Dall’analisi del “jobs act” renziano, anche solo limitatamente ai due primi provvedimenti presi – su contratti a termine e apprendistato – emerge dunque un programma politico-sociale ambizioso, criminale, ma chiaro: fare del “laboratorio Italia” la punta avanzata della reazione capitalistica contro il lavoro; il luogo in cui si sperimenta il peggio per farne un modello valido per tutto il Continente.

Rendersene conto è disegnare le coordinate fondamentali del campo di battaglia dei prossimi anni. Il minimo che si possa fare, per cominciare a ragionare di cambiamento.

dal blog Tempo Reale

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1 Commento


  • corrado giudice

    Il futuro dei diritti dei lavoratori sta in quel che oggi stanno smantellando pezzo per pezzo, il passato senza diritti ma solo doveri oggi si sta trasformndo in futuro.

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