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Un decreto criminogeno imposto con la forza

Lasciamo perdere le fibrillazioni parlamentari, motivate quasi soltanto dalla necessità di ogni corrente partitica di “segnare il confine” come tanti cani da passeggio. Segnaliamo che soltanto i “pentastellati” hanno opposto un briciolo di resistenza (e solidarietà attiva, in un caso) all’avanzare del “modello anglosassone” sul mercato del lavoro. E passiamo al merito.

Il “decreto lavoro” che è stato imposto con il voto di fiducia al Senato è semplice cancellazione di ogni tutela per il lavoro dipendente presente e futuro.

Ufficialmente riguarda soltanto due tipi di contratto di assunzione: quello a termine e l’apprendistato. Ma nella pratica queste due forme della precarietà legalizzata potrebbero a questo punto diventare tranquillamente la forma preferenziale di contratto di lavoro, perché hanno così pochi “limiti” (o “vincoli”, come lamentano ancora le imprese) da consentire qualsiasi ghiribizzo a un imprenditore dotato di fantasia anche minima sul piano legale.

Il punto decisivo per capire la “filosofia” sottostante l’intero provvedimento – al di là delle singole e criminali articolazioni – è quello relativo alla cancellazione dell’obbligo di assunzione a tempo indeterminato dei lavoratori precari “eccedenti” la quota del 20% rispetto al totale dei dipendenti. Quest’obbligo è stato sostituito con una sanzione monetaria decisamente blanda: il pagamento del 20% del salario al primo lavoratore assunto in supero della quota, e del 50% ad altri oltre il primo.

Abbiamo due tipi di logica in azione, che vale la pena di precisare. È certamente preferibile, per il singolo imprenditore, correre il rischio di essere “scoperto” dagli ispettori del lavoro (sempre meno, sempre più obbligati a restare in ufficio invece che girare per stabilimenti e altri posti di lavoro) e pagare la sanzione, piuttosto che essere “costretti” a trasformare il contratto da precario a stabile. Se anche dovesse arrivare la sanzione, potrebbe comunque “licenziare” dopo un mese i soprannumerari per rientrare nella “legge”. E poi ricominciare da capo, magari facendoli assumere da società “newco” da lui appositamente costituite. È del resto il modello di “esternalizzazione” praticato fino all’ossessione da aziende grandi e grandissime (basti vedere lo sciopero dei facchini Ikea di Piacenza, che l’azienda svedese non riconosce come propri dipendenti – pur lavorando nei suoi magazzini – perché formalmente assunti da “cooperative” di comodo).

Il combinato disposto delle due logiche è una “flessibilità” contrattuale pari al “gioco delle tre carte”. Se non va bene una cosa ne applichi un’altra, e poi un’altra ancora. All’infinito.

Tanto più che è stato cancellato “l’obbligo” per l’azienda di indicare una “causale” per il ricorso al contratto a termine (ordinativi di dimensioni eccezionali, produzione stagionale, ecc). Se non c’è più un motivo eccezionale o particolare, insomma, la precarietà “a termine” può diventare la norma.

Quel che nessuno dice, infatti, a proposito delle “solo cinque proroghe in 36 mesi” (per i contratti a termine) è che i datori di lavoro non sono obbligati a nulla, se non a fare periodi “a termine” un po’ più lunghi rispetto all’ipotsi del testo originario (fino a otto proroghe). Ma non esiste nessun divieto a ricominciare da capo, per altri 36 mesi, con le stesse persone e la stessa ragione sociale (e in ogni caso c’è sempre la possibilità, per l’impresa di “esternalizzare” a una società di comodo).

Basti vedere quanto deciso per i ricercatori – ovvero quanti dovrebbero rappresentare il futuro del paese, coloro che fanno nuove scoperte o trasformano scoperte scientifiche in applicazioni produttive. Questo personale di eccellenza – stiamo parlando di laureati/specializzati – potranno esser mantenuti precari nella stessa impresa anche più di 36 mesi, con la motivazione oscena che “i progettidi ricerca possono essere anche più lunghi di 36 mesi”. E non c’è alcun dubbio che sia così: ci sono progetti di ricerca che durano più di una vita umana…

Non basta. Le aziende possono andare “in deroga” agli stessi contratti, confidando sulla firma favorevole di uno o più sindacati complici (tra i molti esistenti o inventabili).

Per gli assunti come “apprendisti”, per di più, il limite del 20% rispetto al totale dei dipendenti che – una volta superato – comporta l’obbligo di assunzione scatta soltanto per le aziende con più di 50 dipendenti, anziché 30 (com’era prima).

Quasi offesive per l0intelligenza umana le norma relative alla “formazione dell’apprendista”. Resta il fatto che il “piano formativo” dovrà essere scritto (sai che sforzo, basta copiarlo…), ma le imprese sono autorizzate a praticarla in proprio anziché affidarla al “pubblico”. In pratica, gli apprendisti verranno messi al lavoro e si farà figurare il 30% del loro orario di lavoro come “formazione”. Quindi come proporzionale detrazione sul salario!

La ciliegina “filosofica” finale è che le norme sull’apprendistato sono di fatto estese ai minori di 18 anni che ancora vanno a scuola. Con una formula che più gesuitica non potrebbe essere: “L’alternanza scuola-lavoro, in particolare negli istituti professionali, viene estesa ai minorenni solo se finalizzata all’acquisizione del diploma”. Perché, c’è qualcuno che va a scuola senza questo obiettivo?

Messa così, fanno e faranno come pare ad ognuno. Non esiste regola che si possa far valere, tranne forse la violenza fisica sui dipendenti (per quello verrà chiamata la polizia, come a Piacenza).

La parola, a questo punto, passa dall’analisi al conflitto. Una situazione legale del genere, infatti, non èpuò assolutamente essere contrastata sul piano giuridico. Ma solo dalla discesa in campo di un blocco sociale di dimensioni gigantesche e con “il mondo del lavoro” come baricentro.

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