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Italia, paese della schiavitù

Per una volta Dario Di Vico, vicedirettore ultra liberista del Corriere della sera, in gioventù dirigente del Movimento Studentesco di Milano, usa il suo giornale per andare a guardare in faccia la realtà sociale. Quella di cui il suo giornale non si occupa troppo, né bene, prescrivendo invece “ricette economiche” mortali.

Vi proponiamo la sua inchiesta, pubblicata oggi, perché molto utile anche, come gli ha fatto notare qualche lettore, fin “troppo dolce” con gli imprenditori-negrieri.

Utile per sapere quel che accade in quel di Vittoria (Ragusa), regno del pomodorino e dello sfruttamento schiavistico, anche sessuale, di oltre un migliaio di donne rumene.

Utile per capire che una “comunità coesa e solidale” (quella dei tunisini, che “pretendevano” stipendi pagati regolarmente e cercano di far rispettare almeno alcuni diritti) resiste molto meglio di una massa di individui senza legami reciproci (le donne rumene); anche per quanto riguarda la contrattazione del salario, persino quando – come nelle campagne siciliane – questo avviene fuori da ogni ambito legale, senza sindacati.

Utile per sapere come funziona l’economia (italiana e non) capitalistica: “Oggi il Bengodi non c’è più, il pomodorino alla produzione rende 10 cent al chilo e poi lo si trova sui banchi dei supermercati anche a 1,5 euro. La pressione sul lavoro si spiega anche così, si scarica in basso la competizione sui prezzi e negli anni c’è stato un ricambio totale della forza lavoro”. E’ quanto avviene in ogni settore, dal trasporto aereo all’automobile, dagli elettromestici al made in Italy.

Utile per capire come vive, ragiona, sfrutta, la piccola borghesia imprenditoriale, non solo siciliana o “meridionale”. E’ una involontaria radiografia di quella classe, anche sul piano dei “valori condivisi”, della mentalità, dell’ipocrisia familistica e familiare, del doppio regime tra volto pubblico e comportamenti privati. tra parole e azione.

Utile per ricordare che la mercificazione delle persone è l’anticamera della “proprietà sessuale”, dell’uso del corpo altrui come “cosa nostra”; sul lavoro e nell’orario di lavoro, come fuori orario. Perché il confine tra diritto del lavoratore e diritto umano è inesistente; non possono esistere o sopravvivere dititti universali se non ci sono diritti nel rapporto di lavoro. Un paese, o una civiltà. che elimina i primi come “freno alla crescita del Pil” si prepara ad eliminare anche i secondi.

Utile per ricordare che la “riforma del mercato del lavoro”, il Jobs Act e l’apprendistato triennale o i contratti a termine, sono il regalo che il governo fa a questi “imprenditori” qui, assolutamente identici a tutti gli altri anche fatte le dovute differenze (quante donne in cerca di lavoro, anche al Nord, si sentono offrire uno “scambio di favori”?) o l’eventuale “rispetto delle forme”.

Utile per ricordare che questo è un esempio di “mercato del lavoro duale” (o addirittura “trino”, visto che sta al di sotto sia del contratto a tempo indeterminato che della precarietà legalizzata); ma anche cosa accade quando – come col Jobs Act – si ricrea “ugualianza” togliendo diritti a chi ne ha ancora qualcuno. Accade l’unica cosa possibile e prevista: tutti restano senza. Schiavi come queste donne, indipendentemente dal genere o dalla esplicita pretesa della prestazione sessuale.

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I festini agricoli e gli aborti delle mille schiave romene


Nell’epoca di Facebook, del tutto-in-Rete e dei conflitti gridati, esistono ancora i drammi sordi. Quelli che si consumano nel silenzio, nello scorrere uguale di giorno/notte e trasformano gli scandali in abitudini. Dopo le accuse di don Beniamino Sacco e della Cgil sullo sfruttamento delle romene nelle campagne di Vittoria, capitale del pomodoro ciliegino e datterino, ci si comincia a chiedere cosa succeda veramente nella zona che va da Scoglitti ad Acate, su su fino a Ragusa.

Vista dall’alto la piana del pomodorino appare un’immensa distesa di plastica che ricopre migliaia di serre. Qui si sta consumando uno di quei drammi sordi: un migliaio e più di romene immigrate in Sicilia, isolate nella campagne è vittima di un assoggettamento che non è più solo economico ma ha invaso la sfera sessuale. Don Sacco denuncia i «festini agricoli» che si tengono di quando in quando, un triste bunga bunga del ceto medio proprietario in cui il piatto ricco sono le donne venute dalla Romania. Ma anche a non ascoltare il parroco basta girare per il Vittoriese per imbattersi in discoteche rurali dai nomi ammiccanti come «Sesto senso» e «Dolce vita». Mancano solo «Colpo grosso» e Umberto Smaila. Purtroppo c’è poco da ridere e la dimostrazione sta nel nuovo fenomeno che inquieta i religiosi e non solo. Vittoria sta diventando terra di aborti, nessuno sa con precisione i numeri ma si parla di una crescita esponenziale (5-6 a settimana per una città di 60 mila abitanti) e perfino l’avvocato Giuseppe Nicosia, sindaco piddino di Vittoria, che alle prime voci aveva difeso il buon nome della città oggi ammette che «mi sono stati riferiti numeri pesanti e ho chiesto all’azienda sanitaria un riscontro ufficiale».

Le serre hanno rappresentato una svolta per l’agricoltura locale, hanno destagionalizzato la produzione e permesso di entrare nel ricco mercato delle primizie. Da qui la nascita di un imprenditorialità diffusa che il Pci, egemone in città, aveva favorito con lo slogan «qui la terra si acquista, non si conquista». A Vittoria sono 3 mila le piccole aziende agricole e diventano 5 mila con i comuni limitrofi. La maggior parte ha dai 2 ai 4 dipendenti, pochissime vanno oltre i 50. I padroncini lavorano come muli presentandosi in azienda alle 5 e tornando in paese non prima delle 18, ma nel tempo hanno potuto comprare case in città e al mare, mandare in giro mogli e figli griffati di tutto punto. Oggi il Bengodi non c’è più, il pomodorino alla produzione rende 10 cent al chilo e poi lo si trova sui banchi dei supermercati anche a 1,5 euro. La pressione sul lavoro si spiega anche così, si scarica in basso la competizione sui prezzi e negli anni c’è stato un ricambio totale della forza lavoro.

I tunisini che avevano popolato le campagne ragusane sono stati sostituiti dai romeni diventati comunitari nel 2008. I maghrebini erano più professionalizzati, attenti a esigere salari regolari e costituivano una comunità coesa e solidale. I romeni sono il contrario. Accettano salari più bassi (massimo 25 euro e in piena evasione Inps), spesso vengono saldati solo a fine stagione ma soprattutto non costituiscono una comunità capace di difendersi. Oltre il 40% della manodopera romena è fatta di donne, arrivate in autobus dalla zona di Botosani perché hanno da mantenere qualcuno in patria: quasi sempre un bambino nato presto da una relazione instabile o finita male. Se in tutto i romeni di questa zona sono 4 mila le donne saranno 1.600-1.800, hanno un’età che va dai 20 ai 40 anni e faticano nelle serre per 11 ore sei giorni alla settimana. Il pomodoro cresce in altezza, va curato e accudito con i fitofarmaci, legato con lo spago, messo al riparo dalla muffa.

Il guaio è che i braccianti venuti dall’Est vivono accanto alle serre. Le abitazioni sono ex depositi attrezzi o baracche, i muri sono senza intonaco, i pavimenti in terra battuta, i servizi all’esterno. Si vive e si dorme in una condizione di degrado e isolamento: nella Sicilia sud-orientale città e campagna sono mondi distanti tra loro un secolo. Vittoria ha i suoi negozi alla moda, ristorantini e locali per l’aperitivo, tantissimi voti per i 5 Stelle. Nelle contrade i soldi bastano alle romene appena per sopravvivere e mandare qualcosa in patria ai figli e alle zie vere/presunte che li tengono con loro.

È questa la base materiale del ricatto implicito dei padroncini, l’assoggettamento si è allargato e le braccianti sono diventate vittime delle attenzioni maschili. Don Sacco sa molte cose e le racconta, i fedeli con lui si aprono più che con il sindacato e le autorità. Ne viene fuori uno spaccato in cui la proprietà sessuale è diventata fenomeno di costume. Mancano episodi di violenza gridata, casi da cronaca nera e ambulanze che corrono in ospedale, il sopruso è perversa e grottesca abitudine. Il sacerdote non ha peli sulla lingua: sarebbero tra le 1.000 e le 1.500 le donne romene in balia dei loro padroni. Alcune avrebbero addirittura preso la strada della prostituzione, altre (poche) all’opposto sarebbero diventate buone mogli di campagna, qualcuna aspetta sempre che il padrone lasci la moglie ma il grosso è catalogabile in un’area grigia di concubinato forzoso dalla quale non si esce. Chi perde il lavoro perde anche l’alloggio.

L’arroganza machista dei padroncini si spinge al punto di non usare il preservativo e la consuetudine diventa dramma con il ricorso all’aborto. In qualche caso (raro) i tempi-limite sono trascorsi e sono nati dei bambini. Le signore di Vittoria non hanno preso di petto la questione, vivono lontane dal luogo dei misfatti, sono coetanee dei loro mariti e figlie di altri padroncini, tutte casalinghe e in fondo anche loro non possono giocarsi il posto di moglie. Qualcuna va dal parroco e se la prende con le romene accusate di lavorare in abiti succinti (nelle serre ci sono anche 50 gradi!), le altre chiudono le orecchie se l’uomo spiega che d’estate preferisce dormire in campagna. I mariti hanno tra i 50 e i 60 anni, un livello di istruzione bassa e sanno che negli affari la pacchia è finita. Sono abituati a comandare e via via hanno trovato naturale impadronirsi anche della libertà sessuale delle dipendenti.

Il sindaco Nicosia ha paura che ne derivi una campagna contro la città o che il ciliegino diventi sinonimo di schiavismo e venga boicottato. Il primo articolo scritto sul sito dell’Espresso dal giornalista siciliano Antonello Mangano lo ha colpito, le successive telefonate delle tv lo hanno allarmato. Oggi con sincerità dice: «Ammiro e rispetto Don Sacco per quello che fa in città con la sua casa accoglienza, non parla mai a caso e anche quando mi critica penso che faccia bene perché accende i riflettori sullo sfruttamento e l’incultura».

Il parroco nell’azione moralizzatrice ha come alleata la Flai-Cgil locale. Uno dei segretari, Beppe Scifo, conosce tutto delle campagne ragusane, non sta in sede ad aspettare i migranti ma con un pullmino gira quando cala il sole, è un piccolo Di Vittorio che ne sa anche di sociologia. Non ama le espressioni roboanti, preferisce il sindacalismo dei gesti concreti. Con lui nella rete della solidarietà per i migranti lavora anche la cooperativa Proxima che si occupa dei casi più spinosi, ragazze madri di varie etnie vittime di violenza e abbandono. Tra loro c’è solo una romena. Il grosso resta invisibile nella segregazione e nella promiscuità. Sarà difficile farle uscire da questo tunnel, l’eco delle polemiche sul caso di Vittoria forse non arriverà alle loro orecchie. Chi le volesse salvare dovrebbe portarle fuori dai tuguri in cui vivono, ospitarle in case albergo e portarle al lavoro con i pullmini. Costa ma non è impossibile. L’Italia del 2014, la società civile che ha imposto le quote rosa, sarà capace di questo gesto di civiltà?

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