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Sette anni fa il rogo Thyssen, un miracolo solo per Boccuzzi

Qualche giornale ricorda che oggi è il settimo anniversario della tragedia della ThyssenKrupp a Torino. Sette operai morti, in un incidente che era classificato come possibile dalla stessa azienda – ne avvenivano tutti i giorni, ormai – che faceva affidamento sulla capacità degli operai di farvi fronte. Esponendo se stessi al rischio mortale.

Le misure di sicurezza non erano state più “upgradate” perché lo stabilimento torinese andava verso lo smantellamento; quindi, dal punto di vista aziendale, era inutile spendere anche un euro per qualcosa che sarebbe andato demolito di lì a poco. Avanti col rischio, e speriamo bene.

Un classico dell’infamia, un omicidio premeditato eventuale (se esistesse un reato simile nel codice penale), perché non era certo che potesse accadere, ma solo “probabile”. Come appendere un fono acceso sopra una vasca dove qualcuno dovrà fare il bagno di lì a poco; se non lo tocca, bene, altrimenti “frigge”,

Il processo istruito da Raffaele Guariniello, che aveva ottenuto condanne per i dirigenti ThyssenKrupp, a cominciare dall’amministratore degelato dell’intero gruppo (Herald Espenhahn, più altri cinque), ora deve essere rifatto.C’è sempre un giudice di secondo o terzo livello (superiore, per carità) che arriva a sentenziare che i padroni non sono responsabili di quel che avviene al di sotto di loro. Come per Eternit, come per altri cento casi.

Ma i giornali di questi giorni tornano sull’anniversario soltanto per un altro motivo. Antonio Boccuzzi, ferito nell’incidente e unico sopravvissuto, era poi diventato deputato del Pd; ovvero l’unico operaio nel parlamento attuale e precedente (chissà perché gli operai non entrano più in parlamento…). Da buon iscritto alla Uilm (sindacato che definire “complice” – con le parole di Maurizio Sacconi – è quasi un complimento), da buon cottimista che accettava di lavorare un numero di ore spaventoso in condizioni di massima insicurezza pur di strappare qualche centinaio di euro in più al mese e una “buona presentazione” a un’altra abbrica quando la Thyssen avrebbe chiuso, ha trovato normalissimo votare per il jobs act che abolisce l’art. 18. Ovvero quell’articolo dello Statuto dei lavoratori che permetteva a lui e a suoi colleghi – i vivi e i morti – di rifiutare di fare quel lavoro in quelle condizioni. Senza rischiare il posto di lavoro.

Se soltanto avessero voluto, se soltanto non avessero accettato di monetizzare (per pochi spiccioli) il rischio della vita.

Oggi, grazie anche a Boccuzzi, ultimo anello di una catena decisionale che certo non lo consulta prima di un voto parlamentare, altri operai nelle stesse condizioni non potranno più rifiutarsi di andare a morire. Se non a rischio del posto di lavoro.

Perché i giornali padronali sono così attenti e cortesi verso Boccuzzi? Perché in uno dei pochi momenti di lucidità politica il blog di Grillo lo aveva pesantemente criticato, aprendo lo sfogo a commenti che – come sempre avviene in Facebook – non hanno certo dimostrato il dono della misura (“Doveva morire lui al posto dei suoi colleghi”, “Tu saresti il primo che dovremmo abbattere”, ecc).

Boccuzzi, per noi, deve invece campare a lungo. Perché così potrà  perdere il posto da parlamentare e tornare – un po’ arrichito, certo – a svegliarsi di notte udendo le grida dei suoi sette colleghi. E magari a sentire un dolore lancinante a quel dito che ha premuto il pulsante del “sì” all’abolizione dell’art. 18. Ogni notte.

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