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Barletta, il lavoro senza coscienza di sé

Le reazioni dei vicini, della “gente” di Barletta, della stessa donna sopravvissuta, sono delle penose genuflessioni al ricatto. Omaggi “al benefattore” che faceva lavorare quelle donne senza contratto e per quattro soldi, in uno scantinato scricchiolante. Una complicità sociale con lo sfruttamento asinino che arriva fino all'”imprenditore”, tanto dissennato da lasciare lì dentro persino sua figlia.

Tutti – ma proprio tutti – in quel luogo considerano tutto ciò una “normale disgrazia”, senza responsabilità particolari, senza colpevoli. E’ persino vero. La verità dell’orrore. Se lo schiavo e il suo padrone sono d’accordo a tessere in quel modo il proprio rapporto, quella è la “normalità”. Medioevale, ma “normale” per il senso comune sociale.

E’ il punto zero della “coscienza di classe”. Il punto in cui il lavoratore non si percepisce come un essere umano dotato di diritti e potere, ma come corpo  bisognoso di nutrimento, quindi di reddito da reperire mettendo se stesso volontariamente sotto padrone. E’ il punto zero della dignità, della capacità di volere, di esprimere opinioni autonome, di pensare.

Ma questo è davanti ai nostri occhi. E’ una realtà sociale con dimensioni di massa. Quando si ragiona di “proletariato”, “classe”, “lavoratori”, bisogna  tener presente Barletta, iceberg di una condizione proletaria, di classe, di lavoratori, che non arrivano a sentirsi “soggetto”. Serve tenere presente questa realtà quando si cerca di calcolare la “reazione sociale” alla crisi, i rapporti di forza, le possibilità di una politica radicale e indipendente.

Se si fa un’analisi che vede esistere le condizioni oggettive e soggettive per “una base reazionaria di massa”, bisogna essere conseguenti. La sollevazione degli sfruttati non è – non è mai stata – un atto repentino e spontaneo frutto di una condizione invivibile. Ma il risultato di un enorme lavoro sociale e politico che punta a “far riconoscere” l’invivibilità di quella condzione a chi la vive. Se così non fosse, potremmo tranquillamente aspettare sdraiati su un divano “la rivoluzione mondiale”.

L’attenta fotografia scattata da Luciano Gallino – sempre più un corpo estraneo rispetto al mainstream di Repubblica – aiuta a centrare l’ordine dei problemi. E a trasformare l’indignazione in scienza della ribellione. L’intervento di Giorgio Cremaschi su Liberazione aggiunge lucida rabbia, con l’esperienza del sindacalista di lungo corso.

 

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Barletta. La nostra vergogna

Luciano Gallino

 

Nella tragedia di Barletta sono presenti i peggiori ingredienti che un talento malvagio possa mettere insieme per farci provare dolore e vergogna.

Un edificio pieno di crepe, uno scantinato mal illuminato, mal aerato, senza uscite di sicurezza. Nel quale lavoravano una decina di donne, faticando fino a dieci ore al giorno. Però senza contratto di lavoro, e pagate 4 euro l’ora. Di laboratori del genere ce ne sono decine solo a Barletta, che diventano migliaia se si guarda all’insieme del Mezzogiorno, e decine di migliaia se lo sguardo si allargasse mai al Centro e al Nord.

Di laboratori e officine e cantieri in nero è piena tutta l’Italia, lo era prima della crisi e lo è ancora di più adesso che la crisi morde tutti e dovunque. Non tutti hanno sulla testa mura che si sgretolano. Però le condizioni di lavoro crudeli, il lavoro in nero e le paghe da quattro euro o meno sono per centinaia di migliaia di lavoratrici e lavoratori l’esperienza di ogni giorno. Il sindaco di Barletta ha detto che non se la sente di attribuire alle persone alcuna responsabilità per le condizioni in cui avevano accettato di lavorare in nero entro quel laboratorio. E neanche alla famiglia dei titolari, che non firmavano contratti in regola, ma nel crollo hanno perso la giovanissima figlia.

Dalle nostre parti, intendeva dire il sindaco, l’alternativa al lavoro nero è la disoccupazione e la fame (o l’ingresso nella truppa della criminalità). L’affermazione è politicamente poco opportuna. Il guaio – che è un guaio di tutti noi – è che il sindaco ha ragione. Fotografa una situazione. Il mercato del lavoro è stato lasciato marcire dai governi e dalle imprese in tutte le regioni d’Italia. La crisi ha accelerato il degrado, ma esso viene dall’interno del paese, non dall’esterno. Una intera generazione oppressa dalla precarietà lavora quando può, quando riesce a trovare uno straccio di occupazione. Stiamo uccidendo in essa la speranza.

Adesso milioni di italiani guarderanno i funerali di Barletta in tv, e molti proveranno una stretta al petto, e il giorno dopo torneranno al loro lavoro precario per legge, grazie alle riforme del mercato del lavoro, o precario perché del tutto in nero. Tuttavia qualcuno un po’ di vergogna potrebbe o dovrebbe pur provarla. Come può un paese in cui si vendono centinaia di migliaia di auto di lusso l’anno, in cui ci sono più negozi di moda che lampioni stradali, e milioni di famiglie hanno almeno due cellulari pro capite, permettere a sé stesso di lasciar morire sotto una casa malandata che crolla un gruppo di giovani donne che faticavano senza contratto per 4 euro l’ora? Le abbiamo costruite tutte noi, queste trappole fisicamente e giuridicamente infami, con le nostre scelte di vita, i nostri consumi, con lo squallore della nostra cultura politica e morale.

Da La Repubblica del 5 ottobre

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Crimini contro l’umanità

di Giorgio Cremaschi
Cinque operaie assassinate a Barletta. Come alla ThyssenKrupp, una strage sul lavoro che nasce da una lunga catena di violazione delle leggi, dei diritti, dei contratti, delle norme di sicurezza ambientali e per le persone e, soprattutto, dalla ricerca del profitto a tutti i costi.
A differenza che alla ThyssenKrupp, però, questa strage non è stata al centro del confronto mediatico. Anzi, dopo che si è appreso che il crollo della palazzina diventava una strage di operaie il fatto è stato quasi derubricato. Che dire, infatti, di operaie che in Italia prendono 3,95 euro all’ora per 12 ore di lavoro al giorno medie? Il che dà diritto a quei 500/600 euro mensili che per una famiglia del Mezzogiorno in crisi possono voler dire la sopravvivenza.
Sentiremo le solite litanie sulla lotta al lavoro nero e sul rispetto delle leggi. Ma la realtà è che a pochi anni dalla strage della ThyssenKrupp dobbiamo solo dire che quella che doveva essere un’estrema deformazione del sistema è diventata il sistema. Un sistema fondato sul supersfruttamento del lavoro fino alle condizioni di paesi lontani, quelli di cui si parlava qualche anno fa come ultimi siti della delocalizzazione e della globalizzazione. Ora la globalizzazione l’abbiamo in casa e il supersfruttamento del lavoro dilaga aggredendo come un cancro prima di tutto e in modo devastante i soggetti e le aree più deboli. Le donne, l’intero Mezzogiorno, i migranti.
Quelle operaie lavoravano in nero sicuramente come ultimo anello di una catena che arriva all’emersione, alle firme, alla legalità. Così come la mafia ricicla i suoi soldi sporchi nelle banche di Milano, così il sistema della produzione ufficiale ricicla il supersfruttamento di Barletta.
In questi trent’anni periodicamente si sono ridimensionati i diritti del lavoro contrattualizzato. Si è spiegato che lo si faceva anche per ragioni di eguaglianza, per ridurre il privilegio dei lavoratori garantiti, in modo da distribuire più equamente i diritti tra tutti. Si sono fatti accordi per far “emergere” il lavoro nero, garantendo agli emersi un sottosalario strutturale e legale. Infine, il 28 giugno si è sottoscritta un’intesa che garantisce alle imprese il diritto di derogare al contratto nazionale. Il governo, non contento di questo e per rispondere alle richieste di Marchionne, Draghi e Trichet, ha varato l’articolo 8 della manovra. Un articolo che estende il diritto alla deroga dai contratti alle leggi, anche a quelle che tutelano contro il licenziamento.
Ebbene tutto questo percorso non ha ridotto di un solo millimetro la dimensione del lavoro nero. Anzi, man mano che il lavoro contrattualizzato sprofondava nel supersfruttamento, il lavoro nero cadeva ancora più in basso e si estendeva.
Quanto avvenuto a Barletta dimostra la vacuità delle tesi dei vari Ichino. Il mondo del lavoro è come un convoglio, se si fa arretrare la testa, quella che ha più potere e diritti, arretra anche la coda, quella che non è in grado di tutelarsi.
E così siamo arrivati alla fine. Quei salari cinesi che erano auspicati da tanti economisti come condizione per la competitività, sono arrivati nel Mezzogiorno. Certo oggi sono illegali, ma grazie all’articolo 8 tra breve potranno essere resi perfettamente coerenti con competitività e produttività. Del resto, che cosa ha detto il sindaco di Barletta, di centrosinistra, di fronte a questa tragedia? Non criminalizziamo, bisogna pur lavorare.
Ecco, nel degrado morale delle parole di questo sindaco c’è la crisi della democrazia italiana. C’è un paese che sprofonda nell’ingiustizia, perde la sua democrazia e le sue libertà, mentre le sue classi dirigenti litigano solo su chi è più bravo a rassicurare i mercati.
La borghesia italiana oggi è profondamente divisa, soprattutto su una questione. Su se e come mandare via Berlusconi. Ma non è divisa sulle scelte di fondo, cioè sul perseguire una via alla competizione fondata sul dilagare del supersfruttamento del lavoro. Su questo sono tutti d’accordo: litigano sui mezzi, non sul fine. Litigano se sia più giusto, come dice Marcegaglia, coinvolgere la Cgil e magari aspettare un po’, oppure – come pretende Marchionne – tagliare subito il nodo dei diritti perché una multinazionale americana in perdita non aspetta. Litigano se sia più giusto dare lo sfratto immediato a Berlusconi e insediare un governo tecnico del grande capitale, oppure se non convenga più democristianamente aspettare che le cose vadano a posto da sole.
Su tutto questo aleggia la crisi internazionale e la sua gestione da parte della finanza internazionale. Pochi giorni fa la Troika che governa la Grecia – Fondo monetario internazionale, Bce, Commissione europea – ha chiesto al governo di quel paese di abbassare i salari minimi per legge. Pare che il primo ministro greco abbia risposto che il suo paese non può diventare come l’India. Ma questo è proprio l’obiettivo del potere finanziario che ci comanda. Questo è il contenuto reale della lettera della Bce al governo italiano.
Ci auguriamo che ci sia un processo per i responsabili immediati delle morti di Barletta. Ma quelli indiretti li conosciamo già: sono i programmi di aggiustamento strutturale, le “riforme” chieste e predicate dal Fondo monetario internazionale, dalla Banca Europea, dal capitalismo finanziario. Da quelle politiche imposte in giro per il mondo sono venute tragedie umane e sociali terribili. Io penso che prima o poi i titolari dell’economia mondiale di questi ultimi venti anni dovranno essere processati per crimini contro l’umanità.
Cerchiamo di dare un senso a queste terribili morti, proviamo a trasformare il nostro dolore in rabbia.
Per impedire che si muoia di lavoro per pochi euro di salario bisogna prima di tutto dire no a Marchionne, Draghi e Trichet. Bisogna fermare la distruzione dei diritti sociali e il supersfruttamento del lavoro, bisogna rovesciare la filosofia e i poteri della globalizzazione. Solo così si potranno costruire un’altra economia e una società giusta dove non si muoia come a Barletta.

(Liberazione del 6 ottobre 2011)

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